Festa del Cuore Immacolato di Maria 
          2005
          
           
          INDICE
          
           
          
          I    –    Un angolo di Vigevano nel 
          sec. XVII.
          
          II   –    L’antico affresco
          
          III  –    Francescani e Domenicani
          
          IV  –    Il grande Caramuel
          
          V   –    La chiesa vecchia
          
          VI  –   La chiesa nuova
          
          VII -    Sviluppi
          
          VIII -  Un altare, una campana e 
          qualche indulgenza
          
          IX   -   L’eremita
          
          X    -   i restauri del 1901
          
          XI   -   la decadenza e la rinascita
          
          XII  -   festa e tradizioni
          
          XIII -   un pò di catechesi
          
          XIV -   guida artistica
          
          XV -   preghiera al SS. Crocefisso
          
          
          I– UN ANGOLO DI VIGEVANO NEL SEC. XVII.
          Ai giorni 
          nostri la chiesetta del Cristo, privata da decenni del suo vasto 
          sagrato che si allungava sul davanti, chiudendo un’area curiosamente a 
          pianta trapezioidale, pare soffocata dal traffico dell’incrocio di 
          cinque strade su cui si affaccia, e mortificata nelle proporzioni dal 
          grande condominio piazzato di fronte e dai tanti altri che stanno 
          sorgendo nelle vicinanze, in luogo delle dismesse fabbriche di scarpe. 
          Dall’altra parte della strada, nascosto da un muro cadente, anche il 
          vecchio mulino della resega sembra smarrirsi tra la strada e le 
          case che lo circondano.  
          Com’è difficile 
          immaginare quest’angolo della nostra città al tempo in cui inizia la 
          storia della chiesa del Cristo, che andiamo a raccontare, più o meno 
          quattro secoli fa.  Dobbiamo immaginare di trovarci presso un 
          crocicchio di campagna, lungo la strada campestre che correva lungo le 
          vecchie mura di Vigevano, chiamati terraggi perchè formate da 
          due muraglioni in mattoni e ciotoli del Ticino collegati da un 
          terrapieno sopraelevato. Un tratto significativo del camminamento 
          sulle mura si conserva proprio da queste parti, tra la via dei 
          Domenicani (dietro il mulino di Porta Nuova, presso le ortaglie del 
          convento di San Pietro m.) e la via Riberia (dove si apriva la porta 
          di Valle). La contrada di Costa, che passa in mezzo, non aveva sbocco 
          dalle mura, fin quando, due secoli fa la cinta muraria andò in 
          pensione e fu demolita (eccetto brevi tratti). Era stata edificata 
          alla metà del sec. XIV, al tempo in cui i Visconti costruivano il 
          Maschio del Castello e la Strada coperta.  Cent’anni dopo i 
          terraggi erano ormai cadenti, e dovendosi provvedere in qualche 
          modo alla grave spesa, venne in mente ad un membro del Consiglio 
          comunale di scomodare nientemeno che il vecchio patrono, Sant’Ambrogio. 
          E il buon Vescovo rispose all’appello e andò in sogno allo zelante 
          amministratore invitando alla ricostruzione delle mura. Volle dare 
          anche un segno, così da colorare la paterna sollecitazione con un 
          prodigio: i lavori andavano cominciati laddove si fosse trovata una 
          porca rossa rovistare col grugno da qualche parte. E così, alcuni 
          giorni dopo (e non prima, ne siamo convinti...), il Consigliere, 
          passando per queste strade, notò che la scrofa del mugnaio del molino 
          detto allora inferiore colorare il suo mantello della polvere 
          rossa dei mattoni sfatti delle mura in rovina presso le quali passava 
          le giornate col suo seguiti di porcellini. Il prodigio fu riconosciuto 
          da tutto il popolo e le mura si cominciarono a riedificare partendo 
          dalla torre di spigolo della cinta, che andò a trovarsi sopra il 
          mulino, come ricordava una lapide posta sul muro. I Vigevanesi vollero 
          fare ancora di più, e immortalarono la porca rossa in una statua di 
          terracotta posta sotto il portico del vecchio palazzo di giustizia 
          comunale, demolito nel 1492 per far posto ai portici della nuova 
          Piazza. Il prodigio era avvenuto il 20 agosto 1452.
          
          Gli intanto passarono, come l’acqua 
          che azionava il mulino reso celebre dalla porca di Sant’Ambrogio 
          (tirato in mezzo con molta confidenza), ma tutto rimase presso a poco 
          tale e quale. Solo questo cambiò destinazione, e fu adibito a 
          segheria, da cui il nome popolare di resega, sempre azionata 
          dal salto delle acque della roggia Vecchia che lambiscono il vecchio 
          fabbricato ancora oggi, e fanno sentire il loro scroscio (traffico 
          automobilistico permettendo) a chi passi per la via. 
          
          Nei primi decenni del sec. XVII sopra 
          il muro d’un qualche edificio rustico, una mano semplice ma efficace 
          dipinse l’affresco del SS. Crocefisso tra San Francesco d’Assisi e 
          Santa Caterina da Siena ora venerato sopra l’altare della chiesetta 
          del Cristo. L’incrocio su cui si affacciava l’immagine conduceva a 
          quel tempo a varie chiesa, alcune delle quali conservate ai giorni 
          nostri. L’attuale via dei Mulini partiva dalla Rocca Nuova, detta 
          anche di San Rocco, dal titolare della chiesa eretta forse al tempo 
          della peste del 1524 dove sorse nel 1922 il santuario della Madonna di 
          Pompei. Fu sede di Confraternita. 
          Quasi davanti, negli anni di cui stiamo discorrendo, sulle rovine 
          della Rocca Nuova, fatta saltare nel 1646 dopo un doppio assedio, si 
          stava costruendo la chiesa del monastero di Santa Chiara. Le clarisse 
          inaugurarono la loro chiesa nel 1670, per opera dell’intrepida 
          fondatrice ven. Giovanna dè Previde Eustachio 
          . 
          
          L’odierna via Rossini era detta nei 
          tempi andati del dosso Baraglia per via della salita sulla 
          costa, e proseguiva, accanto al mulino, verso la chiesa del Carmine 
          costruita davanti alla porta di Valle dopo essere stata fatta 
          atterrare da Ludovico il Moro nel 1498 per far posto a nuove 
          fortificazioni. Era allora dedicata a Santa Margherita; si cominciò a 
          chiamarla  col titolo mariano dopo che nel 1602 s’ebbe insediata la 
          Confraternita del Carmine che la riedificò e nel 1661 innalzò il 
          campanile, che è il più alto della città (fu elevato nel 1782). 
          Il sobborgo nato attorno alla chiesa, abitato dai massè 
          confinava col ponte del Naviglio detto della giacchetta. 
          
          
          L’ultima strada dell’incrocio era 
          costeggiata dalla roggia vecchia (coperta cinquant’anni fa) e si è 
          sempre chiamata di San Giacomo, dall’antica cappelletta che vi sorgeva, 
          ricordo dei romei che passavano per Vigevano, e sostavano sotto il 
          portichetto, ora pericolante, dell’antichissima chiesetta di Santa 
          Maria intus vineas, che sorge poco avanti, oltre la ferrovia. 
          Vi sostò anche un Papa (l’unico passato da Vigevano), Martino V, in 
          ritorno dal Concilio di Costanza, nel lontano 1418. 
          La chiesa di San Giacomo, adibita a cimitero degli appestati nel 1524, 
          era all’incrocio con la strada che porta alla chiesa di Santa Maria 
          degli Angeli, 
          fondata nella seconda metà del quattrocento dal Duca Galeazzo M. 
          Sforza, rimasto illeso da quelle parti, da una brutta caduta a 
          cavallo. Fu ricostruita nel 1583 dalla Confraternita 
          dell’Annunciazione di Maria SS., che l’officiava e l’abbellì a metà 
          settecento con la cupola del presbiterio simile a quella del Cristo.
          
          
          II – L’AFFRESCO
          L’origine della 
          chiesa del Cristo si deve all’immagine del Cristo Crocefisso tra due 
          Santi che si venera oggi sopra l’altare. E’ di dimensioni modeste 
          (alta circa un metro e larga la metà), centinata ad arco (almeno nella 
          configurazione odierna), stesa con la tecnica dell’affresco su un muro 
          di mattoni e sassi di fiume ricoperto di intonaco lisciato 
          approssimativamente e con qualche rappezzo. Siccome è da presumere che 
          l’affresco sia rimasto sempre al suo posto, si deve pensare che fu 
          dipinto sul muro d’un edificio rustico un pò in alto, come si usava 
          per le immagini sacre lungo la strada. Al centro è raffigurato Cristo 
          Crocefisso su un’alta croce col mosso cartiglio sovrastante, che si 
          poggia sul terreno con cunei e un teschio ai piedi. Il Signore, con la 
          testa nimbata e reclinata, è raffigurato in suggestiva espressione: il 
          suo prezioso sangue è sparso con abbondanza dalle piaghe. Ai piedi, 
          lateralmente, in ad orazione è raffigurato a sinistra San Francesco 
          d’Assisi, in ginocchio, con l’aureola e i segni visibili delle 
          stimmate. Dall’altra parte, in un simile posa, Santa Caterina da 
          Siena. Ci soffermeremo nel capitolo successivo su questi due Santi e 
          la scelta di raffigurarli appaiati.
          
          Lo sfondo, reso con colori scuri e 
          soffusi, reca la veduta di una città murata con torri, una cupola e 
          per qualcuno, la sagoma della nostra torre del Bramante. Il cielo, 
          dalle tinte sfumate, mostra, tra le nuvole, la tipica iconografia del 
          sole e della luna. 
          
          L’ignoto artista ha raggiunto un 
          livello espressivo e una resa pittorica non comuni. La pittura, 
          protetta da vetro fin dal sec. XIX, presenta colori vividi e uniformi, 
          nonostante la pellicola pittorica si adatti ad una non uniforme 
          stesura dell’intonaco e a maldestri rappezzi (specie in basso). Non si 
          scorgono tracce di ridipinture, ritocchi e nemmeno restauri; 
          recentemente si è provveduta ad una leggera ripulitura della 
          superficie dalla polvere. Tuttavia è impossibile non essere d’accordo 
          col giudizio dell’allora Parroco di San Cristoforo don Carlo Volpi, 
          che scriveva nel 1819: pare di fresco dipinta.
          
          E pare così 
          anche a noi, a due secoli di distanza.
          
          Questa immagine dovette, quattro 
          secoli fa, toccare la pietà religiosa di chi si trovava a passare di 
          là, tra ortaglie e vigne a ridosso delle mura della città. La 
          devozione crebbe, e come vedremo, si costruì prima un’edicola votiva, 
          poi una chiesetta, e poi la chiesa attuale, nel giro di un secolo. La 
          devozione popolare non è mai venuta meno nel corso del tempo: ancora 
          oggi le pareti dell’edificio sacro mostrano numerosi quadretti ex 
          voto, cuoricini d’argento o latta dipinta, i più antichi dei quali 
          risalenti alla metà dell’ottocento. Nei decenni passati erano molto 
          più numerosi e ricoprivano buona parte dei muri, vicino all’altare e 
          sulle colonne. Accanto a quelli superstiti ne sono esposti diversi 
          aggiuntisi negli ultimi anni, segno di una devozione viva, dopo vari 
          anni di oblio.
          
          
          
          III -  DOMENICANI E FRANCESCANI.
          
          A questi due Ordini religiosi 
          mendicanti, molto affini, appartengono i due Santi raffigurati 
          ai lati del Crocefisso nel nostro affresco: la scelta non deve 
          stupire, entrambi condivisero alte vette di misticismo, trovando nella 
          passione di Cristo la fonte e il culmine. Ebbero inoltre il privilegio 
          di partecipare alla Croce di Cristo attraverso le stimmate. Singolare 
          è piuttosto il loro accostamento: le due scuole di santità, 
          francescana e domenicana, pur analoghe, rimasero nei secoli ben 
          distinte, quasi rivali (sempre benevolmente, s’intende). 
          
          San Francesco d’Assisi (1181 - 1226) 
          raccolse alcuni giovani a condividere il suo ideale di povertà dando 
          vita all’ordine religioso mendicante dei frati minori, da lui 
          chiamati francescani. Negli stessi anni San Domenico di Guzman 
          (1170 - 1221) fondava un ordine religioso analogo detto dei 
          predicatori per la particolare forma di apostolato, più noti come
          domenicani. Al Terz’Ordine femminile appartenne Santa Caterina 
          da Siena (1347 - 1380) che fu protagonista nella travagliata vita 
          della Chiesa e del Papato del sec. XIV, colma di grazie dello Spirito 
          Santo. 
          
          Entrambi gli Ordini, nelle varie 
          famiglie e nelle branche maschili e femminili, furono presenti a 
          Vigevano, fino alle soppressioni napoleoniche di inizio ottocento. Ora 
          restano soltanto i Cappuccini, tornati nel 1895 operando con 
          gradimento dei concittadini nel convento della Sacra Famiglia, a non 
          molta distanza dalla chiesa del Cristo.
          
          I primi religiosi ad aprire una casa 
          religiosa con chiesa propria a Vigevano furono i frati francescani 
          minori della famiglia dei conventuali, che diedero inizio alla 
          chiesa e al convento di San Francesco nel 1378, ad opera del 
          vigevanese fra Giovanni Ferrari. 
          Al primitivo chiesuolo si sostituì alla metà del sec. XV la bella 
          chiesa attuale, ora rifatta secondo il gusto neogotico dai radicali 
          restauri ottocenteschi. Il convento fu soppresso nel 1801 per le leggi 
          napoleoniche; la chiesa dopo essere stata adibita a deposito di sale 
          della vicina dogana (alloggiata nel convento), fu riaperta al culto e 
          divenne sede della parrocchia di San Dionigi nel 1852. Onorò questo 
          convento il Beato Anselmo degli Anselmi, vigevanese (morto alla fine 
          del sec. XV), il cui corpo si venera all’altare di Santa Margherita da 
          Cortona. Fu più volta ospite di questo cenobio San Bernardino da Siena 
          tra il 1431 e il 1442; una tradizione vuole che abbia eretta il bel 
          campanile di San Francesco.
          
          Legata a questo Santo, propugnatore 
          dell’osservanza francescana è la fondazione, resa definitiva nel 1475 
          della chiesa di Santa Maria delle Grazie e del convento dei 
          Francescani osservanti, più noti come zoccolanti. Il 
          complesso, che sorgeva in fondo a corso Novara, fu soppresso nel 1810 
          e in gran parte demolito; resta un chiostro, adibito ad abitazioni. 
          Visse qui il Beato Cristoforo Macassolio (morto nel 1485), le cui 
          reliquie si traslarono in Duomo nel 1811, ove si venerano all’altare 
          di Sant’Elisabetta.
          
          La terza famiglia francescana, quella 
          dei Cappuccini, 
          si insediò nel 1539 in città, inizialmente presso la chiesetta della 
          Madonna di Loreto, che esiste ancora oggi, in via Santa Casa. Nel 1609 
          i Cappuccini si trasferirono in un più grande convento, intitolata a 
          Santa Maria del Crocefisso, a Battù, soppresso nel 1805. Resta il coro 
          della grande chiesa, visibile in via dei Cappuccini.
          
          Nel Convento della Santa Casa si 
          trasferì nel 1609 un altro ramo francescano, quello dei Terziari, che 
          vi rimasero fino al 1653.
          
          A Vigevano erano presenti dunque tutti 
          i rami maschili: abbiamo già accennato al ramo femminile, le suore 
          clarisse, che ebbero un convento sugli spalti della Rocca Nuova, di 
          cui resta il chiostro, e la chiesa intitolata a Santa Chiara, allo 
          sbocco del corso della Repubblica, tra il 1655 e il 1810. Già prima si 
          era formata una comunità domestica di clarisse nel 1458 presso la 
          chiesa di San Dionigi (presto confluite nel monastero di Santa Chiara 
          ad Abbiategrasso), e in seguito, nel 1641 in una casa del vicolo del 
          Seminario, che diede vita poco dopo al monastero vigevanese.
          
          Abbiamo lasciato per ultimi i 
          Domenicani, non certo perchè ritenuti tali in ordine di prestigio. 
          Tutt’altro.  La chiesa e il convento di San Pietro Martire, 
          dei frati domenicani dell’osservanza furono fondati nel 1445 a 
          seguito di un voto pubblico dei Vigevanesi a quel Santo. Il quando, il 
          come e il perchè di quel voto furono oggetto di infinite questioni. I 
          frati certamente erano conosciuti a Vigevano già prima del 1445, forse 
          già dal 1359, almeno per periodiche predicazioni. Il convento fu 
          illustre per la fama di santità e il prestigio dei suoi frati: tra 
          questi uno divenne papa: il grande San Pio V. Ma il più noto, e il più 
          caro a noi tutti vigevanesi è il Beato Matteo Carreri
          
          (1420-1470), 
          proclamato protettore di Vigevano nel 1518. Il corpo è venerato con 
          grande fervore ancora oggi, e non solo per le feste patronali di 
          ottobre, nella cripta, o scurolo sotto l’altare maggiore della 
          chiesa di San Pietro Martire, divenuta parrocchiale di San Cristoforo 
          nel 1806, essendo stato il convento soppresso l’anno prima e adibito a 
          sede del Tribunale, come ai giorni nostri.
          
          I Domenicani erano presenti inoltre 
          alla Sforzesca, avendo avuto in dono la possessione da Ludovico il 
          Moro perchè suffragassero l’anima sua e della moglie. Presso la chiesa 
          (rifatta nell’ottocento, eccetto il campanile) avevano un piccolo 
          convento, dipendente da quello di Santa Maria delle Grazie di Milano. 
          I beni furono incamerati nel 1798 e venduti.
          
          Anche il ramo femminile, 
          quello di Santa Caterina da Siena, fu presente in città fin dal 1445. 
          Le Terziarie abitarono prima in una casa di vicolo degli Anselmi, poi, 
          dal 1525 nel grande convento dell’Assunta, in via Merula, soppresso 
          nel 1805, di cui restano i due chiostri. La chiesa divenne teatro, 
          cinema, infine...appartamenti e una banca. Tra le suore, emerse per 
          fama di santità la Beata Caterina Naj Savini, 
          da Gambolò, penitente del Beato Matteo, morta nel 1516. Le reliquie si 
          venerano nella cappella di San Pio V della chiesa di San Pietro 
          Martire.
          
          La presenza femminile domenicana, dopo 
          molti decenni, ritornò in città con la venuta delle suore di Santa 
          Caterina da Siena del Second’Ordine (le nostre domenicane), nel 1881 
          su invito del vescovo mons. De Gaudenzi, in via Griona. Nel 1912 si 
          trasferirono nel convento già delle Sacramentine (eretto nel 1876 in 
          fondo al vicolo Deomini) alle spalle dei chiostri dell’Assunta. Ancora 
          oggi operano nell’istituto scolastico San Giuseppe.
          
          Due scuole di santità così radicate 
          nella nostra città non mancarono mai di spronare religiosi e laici 
          nella santa emulazione, sempre pacifica, eccetto qualche ceffone 
          volato in Duomo l’8 dicembre dell’anno 1537.
          
          
          IV – IL GRANDE CARAMUEL
          
          Abbiamo lasciato la nostra immagine 
          sul murello. Tanto per dare qualche riferimento cronologico, noteremo 
          che la carta topografica della città in vista dell’assedio francese 
          della Rocca Nuova del 1646, peraltro puntuale, non segna alcuna 
          cappella od edicola: se c’era, era solo un dipinto su un muro, e non 
          doveva comunque costituire un ostacolo o un possibile avamposto 
          militare come le chiese e i casolari vicini. Ma tant’è che la 
          devozione popolare crebbe a tal punto che si decise di erigere una 
          cappelletta di fronte ad essa, e si provvide a chiedere al Vescovo la 
          debita autorizzazione. Sedeva sulla cattedra vescovile della nostra 
          città il grande mons. Caramuel, che resse la piccola diocesi di 
          Vigevano tra il 1673 e il 1680, noto ai più come studioso di quasi 
          tutte le discipline dello scibile umano e artefice della facciata del 
          Duomo e della sistemazione urbanistica della sua piazza. Ebbene 
          proprio lui, come racconta il Gianolio, 
          diede licenza, il 5 agosto 1680, di costruire una chiesa 
          intitolata al SS. Crocefisso fuori porta di Valle. 
          
              
            V – LA CHIESA VECCHIA
          
          Si fece carico di provvedere a 
          raccogliere le elemosine e dirigere la costruzione di una chiesa, la 
          primitiva, l’allora parroco di San Cristoforo, nel cui territorio si 
          trovava l’immagine, don Andrea Giacomo Araldi, che resse la cura 
          d’anime dal 14 dicembre 1659 all’11 dicembre 1696. L’edificio di culto 
          divenne così di proprietà del parroco pro-tempore, 
          esercitandone l’amministrazione e il diritto di Patronato, come fa 
          ancora oggi. Essendo oratorio di proprietà di un privato si salvò 
          dalle soppressioni napoleoniche, e rimase aperto al culto anche in 
          quegli anni burrascosi, a differenza delle chiese di conventi e 
          confraternite, come vedremo a suo luogo. Leggiamo infatti dalle pagine 
          di un manoscritto inedito del can. Fassina, rettore della chiesa di 
          Sant’Ignazio, che scriveva nel 1729, tra le chiese e gli oratori 
          costruiti dopo il 1669, quello del SS. Crocefisso della Resega, 
          dall’elemosina dei fedeli e dall’impegno del parroco di San Cristoforo 
          D. Giacomo Andrea Araldi completato nel 1689.
          
          Di questo 
          edificio, forse un piccolo oratorio campestre con altare per 
          celebrarvi la Messa, non sappiamo nulla, se non che già esisteva nel 
          1687 nelle strutture murarie, comparendo in una pianta topografica 
          della città di quell’anno. 
          
          
           V – LA CHIESA NUOVA
          
           La 
          primitiva chiesa doveva essere ben poca cosa, e non solo in termini di 
          superficie occupata, non soddisfacendo alla crescente pietà religiosa 
          dei devoti, che dopo pochi decenni intrapresero la costruzione di una 
          nuova chiesa, ancora una volta con le offerte, i materiali, e le 
          prestazioni d’opera dei fedeli stessi, come dimostrano i rilievi 
          compiuti sulle murature e le coperture. 
          A incanalare il fervore in un’opera non piccola, toccò ad un 
          successore di don Araldi, don Bartolomeo Prato Previde, parroco di San 
          Cristoforo dal 17 marzo 1748 al 1 aprile 1763. I lavori, come annota 
          il citato don Volpi, 
          cominciarono nell’anno 1749 e dovettero concludersi, almeno nelle 
          parti essenziali, due anni dopo. Nel retro del portone d’ingresso alla 
          chiesa, sulle ante superiori, è infatti incisa la data 1751, 
          che si riferisce alla costruzione del serramento che andava a chiudere 
          un edificio almeno in parte completato. 
          Si volle 
          costruire non un semplice luogo di culto campestre, come molti altri, 
          ma un santuario vero e proprio, che, pur nelle limitate proporzioni, 
          presentasse un’articolazione architettonica e decorativa tutt’altro 
          che trascurabile. L’edificio costruito è di piccole dimensioni, a 
          pianta centrale a croce greca da cui si dilata al centro un ottagono 
          coi bracci dell’ingresso e dell’altare dilatati. L’impianto assume 
          grandiosità ed eleganza nell’articolazione delle otto colonne binate 
          su alta base che sostengono nei quattro lati trasversali la calotta 
          della cupola, piuttosto elevata, che tramite un breve tamburo, 
          nascosto dal cornicione interno, imposta la calotta sommitale. A 
          rendere prezioso l’interno sono gli splendidi stucchi a forte rilievo 
          che ornano i capitelli delle colonne e i sottarchi di presbiterio e 
          ingresso e soprattutto invadono con esuberante eleganza barocca tutta 
          la parte superiore della chiesa. Chi eseguì il disegno e chi eseguì 
          l’opera doveva provenire da un livello artistico non comune (frequente 
          in Piemonte e Lombardia tra i sec. XVII e XVIII), che ha lasciato 
          esempi analoghi in alcune chiese della Lomellina e soprattutto nella 
          vicina chiesa della Confraternita della Madonna degli Angeli, di cui 
          venne costruita, proprio in quegli anni, l’elegante cupola che 
          sovrasta il presbiterio, decorata di dipinti su tela e stucchi, 
          inequivocabilmente affini ai nostri.
          La decorazione 
          a stucco rimase confinata alla parte superiore della chiesa: attorno 
          all’ancona col dipinto venerato non si conservano strutture 
          architettoniche o anche solo decorative analoghe alla cupola. L’ancona 
          dipinta di gusto neoclassico risale alla metà del sec. XIX; l’altare 
          attuale, marmoreo, come vedremo, sostituisce molto probabilmente 
          quello originario, forse  in muratura con decorazioni in stucco.
          La chiesa era 
          originariamente completamente isolata, e decorata esternamente da 
          lesene e paraste visibili per tutto il fianco laterale, verso via dei 
          mulini; la stessa decorazione in muratura, intonacata, riprende nel 
          fianco opposto, successivamente nascosta dall’addossamento di 
          sagrestia, campanile e casa annessa. E’ ben visibile dalla scala 
          interna che sale al campanile e da un locale di disimpegno sul braccio 
          opposto. Se la finitura esterna è accurata fino al tetto dei bracci 
          dell’ottagono e della facciata, fu lasciata rustica tutta la parte 
          superiore: ancor oggi il piccolo tamburo reca a vista la muratura (si 
          noti l’incoerenza del materiale: mattoni di varia consistenza e 
          dimensioni con l’inserzioni di pietre e sassi di fiume) e la cupola, 
          intradossata anche nel progetto iniziale (secondo la tradizione 
          lombarda), è coperta da un tetto a otto falde retto da pilastrini (non 
          furono eseguiti i muri di continuazione). Accurata è l’articolazione 
          della facciata, verticalmente dilatata, con elaborati capitelli sui 
          pilastri. 
          
          
          VI – 
          SVILUPPI SUCCESSIVI
          Abbiamo visto 
          come la nostra chiesa fosse nata nella metà del sec. XVIII come 
          oratorio campestre isolato; non passò molto tempo che si decise di 
          affiancare al luogo di culto locali di servizio, come la sagrestia e 
          il campanile. Si aggiunse inoltre un caseggiato addossato alla 
          costruzione per alloggiarvi il custode eremita di cui 
          parleremo. 
          
          Il primo edificio 
          aggiunto fu la sagrestia, concepita come un vano architettonicamente 
          autonomo, collegato da una porta al transetto sinistro della chiesa, 
          di proporzioni dignitose e voltato. La muratura è piuttosto regolare, 
          diversamente da quella della chiesa ed è slegata dai muri adiacenti. 
          Se successiva è l’inserzione di questo locale, non dovettero passare 
          molti anni, se fa fede la data 1754 incisa nell’anta del mobilio 
          ancora conservato, senz’altro originale.Nella 
          visita pastorale del Vescovo Mons. Scarampi, del 1757, è nominata come 
          già esistente la sagrestia, con quanto necessario per la celebrazione 
          della S. Messa.
          
          A quest’epoca, 
          inoltre, risalgono le suppellettili d’altare di cui è dotata la 
          chiesa. 
          Analogamente 
          furono aggiunti, nel fronte, due locali, uno sopra l’altro, costruiti 
          con approssimazione e ampliati in lunghezza in un secondo tempo. Anche 
          sopra la sagrestia fu eretto un locale, con livello di soglia elevato 
          però di due gradini. Le tre stanze, coperte da solai in legno, furono 
          collegate da un breve corridoio ai due piani, che immette nel vano 
          scala, ricavato nell’intercapedine del lato obliquo dell’ottagono alla 
          chiesa. Per sfruttare lo scarso spazio la scala fu eretta in mattoni 
          con gradini irregolarmente disposti a chiocciola, sostenuta da un 
          voltone in muratura. Al di sopra di questo vano, in un secondo tempo 
          (a giudicare dalla muratura originaria superstite), forse nel 1806 per 
          ospitare la campana, come vedremo,  fu impostato il breve campaniletto, 
          a pianta quadrata con grande cella campanaria. Esso è stato 
          integralmente ricostruito verso il 1950 a causa del cedimento 
          dell’arcata e delle travi di appoggio; fu allora impostato su una 
          putrella in cemento armato, riprendendo le linee antiche, con 
          cornicione aggettante in cotto e il tettuccio a quattro falde con 
          piloncino sommitale reggente la croce. Non furono però eseguiti gli 
          archetti a tutto sesto delle finestre della cella, sostituiti da 
          putrelle piatte in forati; il castello della campana, in legno, fu 
          ricostruito con travicelli in ferro.
          Nel giro di 
          qualche decennio, dunque, la destinazione e il ruolo della chiesa 
          erano cambiati, divenendo luogo di culto non più saltuario, con 
          officiatura regolare (pur senza legati) e quanto necessario per la 
          celebrazione della Messa. L’ultimo cappellano festivo fu don Matteo 
          Bellazzi, morto nel 1919.
          Fino a trent’anni 
          fa si celebrava Messa regolarmente ogni venerdì, specie in quaresima, 
          da un Curato di San Pietro martire per devozione degli abitanti del 
          rione.
          
            
              
            
              
              
               
              Dagli Atti della Visita di mons. Scarampi (12 luglio 1757) 
              conservanti nell’ ASDV, leggiamo: Accessit ad Ecclesiam S.mi 
              Crucifixi, ubi visitavit altare, sacristiam, vasa sacra, et sacras 
              suppellectilis, que omnia inventi ad formam 
 
           
          
          VII – UN 
          ALTARE, UNA CAMPANA E QUALCHE INDULGENZA
          Siamo giunti 
          ormai agli inizi del sec. XIX, epoca di gravi turbamenti e 
          sconvolgimenti, anche in campo ecclesiastico. Tra il 1798 e il 1810 
          nella sola città di Vigevano, a causa delle leggi soppressive, vennero 
          chiuse e vendute ben 9 chiese con annesso convento o monastero (in 
          seguito furono riaperte le sole chiese di San Francesco e San Pietro 
          M.), e oltre 20 chiese di Confraternite e Oratori. Poche di esse 
          rimasero aperte perchè dichiarate sussidiarie di Parrocchie (per San 
          Cristoforo: San Pietro martire e il Carmine) o perchè salvate dai 
          Confratelli e ripristinate passata la bufera napoleonica (la Madonna 
          degli Angeli). 
          La chiesa del Cristo non rientrò tra i casi previsti dai decreti di 
          soppressione, perchè ritenuto Oratorio privato di proprietà e 
          patronato del Parroco pro-tempore di San Cristoforo, che ne 
          aveva curato la edificazione, e che tuttora ne detiene il patronato e 
          l’amministrazione.
          Ai quei tempi 
          furono numerosissime le opere d’arte, gli oggetti, le suppellettili 
          dismesse dalle chiese chiuse e spogliate d’ogni bene, originando la 
          tragica distruzione e dispersione d’un patrimonio artistico valutabile 
          in poco meno di quello rimasto. Nacque quindi un mercato di oggetti, 
          ma anche di manufatti più impegnativi, come balaustrate ed anche 
          altari marmorei.  Uno di questi, proveniente da chi sa quale chiesa 
          profanata della nostra città, dovette capitare al Cristo ed essere 
          rimontato.  Quello che vediamo oggi è una pregevole composizione di 
          gusto barocco in marmi policromi elegantemente assortiti e sagomati, 
          databile ai primi decenni del sec. XVIII. Sono evidenti, specie 
          nell’articolato paliotto, i segni dello smontaggio e della 
          ricomposizione accurata dei tasselli della struttura marmorea. Si noti 
          inoltre l’evidente sproporzione dell’altare rispetto al vano in cui è 
          inserito (penetrando le lesene dei muri): l’alzata per i candelieri, 
          inoltre, sembra essere stata ristretta e accostata al tabernacolo 
          marmoreo, piuttosto sovradimensionato rispetto all’insieme. Inoltre si 
          noti che la parte posteriore, addossata alla parete, presente parti di 
          specchiatura marmorea, che avevano un senso quando l’altare, dotato di 
          una seconda alzata e diversamente assemblato, doveva trovarsi tra il 
          presbiterio e il coro di una chiesa, al centro del vano.  Un’ulteriore 
          dimostrazione è stata la scoperta, durante il rinnovo della cassa del 
          tabernacolo, nel giugno 2003, di uno sportello in legno decorato in 
          stucco che chiudeva originariamente la custodia del SS. Sacramento. Lo 
          sportellino, ora custodito in sagrestia, reca in facciata un’elaborata 
          decorazione a stucco in forte rilievo dorata, raffigurante al centro, 
          su una nuvoletta l’usuale raffigurazione dell’ Agnus Dei. 
          Attorno sono eleganti decorazioni a stucco verniciate in argento (in 
          parte cadute), e sotto, le parole della consacrazione della Messa 
          secondo il Canon Missae.
          Il disegno ricorda molto lo sportellino dell’altare della cappella 
          della Madonna del Rosario nella chiesa di San Pietro martire (quello 
          però in lamina di rame sbalzato e cesellato). Quando l’altare fu 
          trasferito al Cristo non era più necessario conservare nel tabernacolo 
          il SS. Sacramento, ma piuttosto la reliquia della Santa Croce in 
          apposito reliquiario ad ostensorietto, che ancor oggi si espone 
          all’altare nei giorni della festa. Si decise allora di applicare sopra 
          lo sportello una nuova facciata, questa volta in lamina di ottone 
          sbalzata e cesellata, realizzata nel primo decennio dell’ottocento e 
          raffigurante la Santa Croce contornata da teste d’angelo e da una 
          raggiera. 
          Un mese prima 
          di scoprire lo sportello originario del tabernacolo, nel maggio 2003, 
          calando la campana dal campanile per l’improrogabile sua revisione e 
          riparazione, si scoprì essere molto più antica della chiesa e del 
          campanile. Anzi è la più antica campana funzionante della città. Si 
          scoprì in quell’occasione la dicitura a rilievo: SS. 
          TRINITAS ET VIRGO MARIA 
          TUEANTUR – 1690. Se, come 
          abbiamo detto, il campanile fu eretto nel primo decennio 
          dell’ottocento, possiamo supporre che la campana, come l’altare, 
          provenga anch’essa da qualche chiesa soppressa in quegli anni. Con 
          qualche ragione possiamo affermare che provenga dall’antica chiesa 
          parrocchiale di San Cristoforo, 
          che sorgeva all’angolo tra il vicolo omonimo e la via Riberia. Era 
          stata fondata nel 1524 al tempo d’una grave pestilenza per cura di un 
          gruppo di uomini della contrada di Valle, che s’unirono in una 
          Confraternita per l’assistenza materiale e spirituale dei loro 
          concittadini, intitolata a quel Santo con l’abito nero in ricordo di 
          quei lutti. Nel 1584 si intitolò alla SS. Trinità (infatti la campana 
          ha questo titolo) e mutò l’abito in rosso. Nel 1801, soppressa la 
          Confraternita la chiesa fu lasciata aperta al culto perchè sede di 
          cura d’anime, ma nell’agosto del 1806, il parroco don Clerici ottenne 
          dal Demanio di trasferire la parrocchia nella chiesa di San Pietro 
          martire (i frati erano stati cacciati l’anno prima). La vecchia 
          parrocchiale fu quindi soppressa e venduta, insieme ad altari e quant’altro 
          per £ 2.500 (somma ridicola anche a quel tempo), come ricorda il 
          cronista contemporaneo Ludovico Cotta Morandini. 
          Alcuni quadri e la suppellettile si trasferirono nella nuova 
          parrocchiale.
          
          Sul campanile di questa chiesa stavano 
          due campane, risparmiate dalla requisizione sabauda del 1795. 
          Calate nel 1806, dovendosi atterrare la torre, non furono vendute, ma 
          issate sul campanile di San Pietro martire, che di campane ne avevano 
          lasciata una sola. Nel memoriale citato di don Volpi, leggiamo che nel 
          1819 vi erano due campane (una lasciata nel 1795 e l’altra di 
          San Cristoforo), e altra piccola (anch’essa di San Cristoforo)
          fu trasportata ad altra chiesa, nel circondario della Parrocchia. 
          Dunque questa campana, calata dall’antica parrocchiale di San 
          Cristoforo fu tra il 1806 e il 1819 portata al Cristo e issata sul 
          campaniletto, eretto in quegli anni.
          
          Poco dopo, si aggiunse anche la 
          concessione di una serie di importanti indulgenze, come leggiamo nel 
          prezioso memoriale di don Volpi: nella chiesa del SS. Crocefisso, 
          detta volgarmente “della Resega” situata nei sobborghi della 
          parrocchia, dietro istanza fatta dall’attuale Parroco, SS. Pio VII in 
          data 15 luglio 1818 si è degnato di concedere le seguenti indulgenze:
          
          1-    
          indulgenza plenaria nella festa dell’Invenzione della Santa 
          Croce, nella terza domenica di settembre, e nel venerdì dopo la terza 
          domenica di quaresima.
          
          2-    
          altra indulgenza concessa a chiunque visiterà la detta chiesa 
          nella festa dell’Esaltazione della Santa Croce e nei sette giorni 
          susseguenti una sol volta l’anno.
          
          3-    
          come pure indulgenza in tutti gli altri venerdì di quaresima 
          soltanto per sette anni, ed altrettante quarantene.
          
          4-    
          così pure tutti gli altri venerdì dell’anno concede indulgenza 
          di duecento giorni. 
          
          Tutte le suddette indulgenze sono 
          accordate per un settennio, e riconosciute dall’Ordinario in data 14 
          settembre 1818.
          
          In sagrestia si conserva ancora il 
          cartiglio di legno baroccamente sagomato che si appendeva in chiesa 
          nei giorni disponibili per acquistare le indulgenze. 
          Se si chiese e si ottenne dalla Santa Sede la concessioni di 
          indulgenze per più giorni l’anno, è evidente quanto passaggio di 
          fedeli dovesse esserci in chiesa a quel tempo, specialmente in 
          Quaresima e nelle due feste della Santa Croce: l’Invenzione (3 maggio) 
          e l’Esaltazione (14 settembre).
          
          
          VII – L’EREMITA
          Abbiamo parlato della costruzione di 
          alcuni ambienti annessi alla sagrestia e abbiamo accennato a chi li 
          occupava, il custode della chiesa, che abitava anche il caseggiato 
          retrostante. Questo esiste ancora, pur trasformato, dopo essere stato 
          espropriato e venduto dal demanio a causa delle sciagurate leggi 
          soppressive anti - religiose messe in atto dal governo subalpino nel 
          1866. 
          Tra gli edifici e i terreni legittimamente donati e posseduti da 
          istituzioni religiose, incamerati dal governo, ci fu quella parte 
          della casa del custode, venduta, e ricostruita nel 1920 con la 
          facciata su via Mulini decorata da artistici graffiti; la parte di 
          casa sul cortile, un tempo collegata alla sagrestia, fu rifatta trent’anni 
          fa.
          La casa fu abitata nel sec. XX da un 
          eremita, figura rimasta ancora ai nostri giorni nella memoria e 
          nell’immaginazione dei nostri vecchi, ricordata nella relazione citata 
          del 1819. Parlando dei romiti della parrocchia, don Volpi 
          scrive: vi è vicino alla chiesa, ossia oratorio del SS. Crocefisso 
          detto volgarmente della Resega il sacrestano ossia romito, il medesimo 
          viene nominato dal Parroco, ed ha la sua abitazione annessa e connessa 
          alla chiesa. La di lui condotta è del tutto onesta e morigerata, 
          frequenta i sacramenti, il di lui abito quando va a questuare per la 
          città colla bussola si è di colore ceruleo, ritrae poi il di lui vitto 
          dalle giornaliere sue fatiche, occupandosi di lavorante di muratore  
          Raccontano i vecchi che un eremita, forse quello del 1819, di cui non 
          è stato trasmesso il nome, abbia preparato per sè un sepolcreto dentro 
          la chiesa, sotto il pavimento davanti all’altare. Nel 1993, rimuovendo 
          il pavimento della chiesa e scavando per risanare il suolo, si trovò 
          appena sotto il gradino una tomba in mattoni accuratamente costruita, 
          ma priva di traccia di sepoltura.
          Queste figure con l’andare del tempo 
          andarono scomparendo e al Cristo si provvide a stabilire una famiglia, 
          che abitava la parte di casa rimasta dopo il 1866, coltivava ad orto 
          il cortile e si occupava della chiesa; in caso di nevicate e di 
          funzioni particolari, prestava la sua opera coadiuvando il sagrestano 
          di San Pietro martire. Ultimamente, fino a quarant’anni fa, si occupò 
          della chiesa la fam. Guffra, pare per circa un secolo.
          
          
          VIII – I RESTAURI DEL 1901
          Ancora una volta la storia 
          del Cristo si incrocia con quella della chiesa di San Cristoforo, anzi 
          della sua Confraternita, intitolata alla SS. Trinità, esule in San 
          Pietro martire nel 1806 con le altre Confraternite della Parrocchia 
          sotto il titolo del SS. Sacramento. 
          Passata la bufera napoleonica si ricostituì con gli usi antichi, e 
          contribuì con efficacia alle opere parrocchiali: nel 1887 provvide al 
          nuovo altare marmoreo della cappella della SS. Trinità nella chiesa di 
          San Pietro martire con gli affreschi del Garberini alle pareti. Nel 
          1901 si sobbarcò l’onere di promuovere e curare i radicali restauri 
          della chiesa del Cristo. Questa si trovava allora in grave stato di 
          deperimento  a causa dell’umidità proveniente dal suolo 
          (inconveniente  ancor oggi presente) e dalle infiltrazioni d’acqua 
          piovana dal tetto, che avevano danneggiato gli stucchi della cupola. 
          All’interno si procedette ad una ridipintura generale delle pareti e 
          delle decorazioni che alterò pesantemente l’aspetto originario.
          I muri, le colonne e i 
          cornicioni furono dipinti ad imitazione del marmo secondo il gusto del 
          tempo con tinte giallo-rosse e verdi nelle colonne e nel riquadro 
          delle basi. L’ancona dipinta sopra l’altare fu ritoccata e appesantita 
          con decorazioni in oro matto. Nel cornicione si scrisse: AVE 
          MARIA GRATIA PLENA; gli stucchi della cupola furono dipinti a 
          fondo giallo con decorazioni dipinte nelle cornici. I cartigli furono 
          riscritti su fondo arancione. L’affresco sul colmo della cupola, 
          evidentemente già lacunoso, fu coperto da uno scialbo rosso al cui 
          centro fu dipinta la colomba dello Spirito Santo; nel riquadro 
          centrale del sottarco dell’altare fu disegnato un ostensorio. Tutti 
          questi elementi nell’ultimo restauro furono rimossi, anche per 
          l’irreparabile degrado in cui versavano, eccetto il pregevole dipinto 
          che orna la lunetta sopra l’altare, raffigurante tre angeli su nuvole, 
          eseguito presumibilmente nel 1901. Non presenta nè data, nè firma, ma 
          si può agevolmente attribuire ad un pittore della cerchia degli 
          artisti vigevanesi che onorarono la nostra città a cavallo tra otto e 
          novecento.
          Dopo questo intervento, si 
          segnala nel 1927 la sistemazione della casa del sagrestano, col 
          ballatoio e la scala esterna in muratura (prima erano in legno). Nel 
          1950 si provvide a ricostruire il campaniletto e rappezzare gli 
          intonaci esterni. Poco dopo furono rifatti in marmo rosso i due 
          gradini dell’altare in chiesa e la predella in 
          parquet.
          
          
          IX – LA DECADENZA E LA RINASCITA
          Il secondo dopoguerra, con le 
          trasformazioni sociali e anche urbanistiche di quest’angolo di 
          Vigevano, divenuta immediata periferia industriale, segnò un mutamento 
          radicale anche per la chiesa del Cristo. La frequentazione più 
          rarefatta, la precarietà della custodia e l’inarrestabile degrado 
          delle strutture architettoniche, segnarono un lento e inesorabile 
          declino dell’edificio sacro. Nel 1984, venuta a mancare la presenza di 
          un sagrestano, e a seguito di alcuni furti perpetrati ai danni della 
          suppellettile antica, si dovette chiudere al culto la chiesa. Presto i 
          segni del degrado si fecero pericolosi: il tetto della casa, 
          parzialmente crollato per la nevicata del 1985 fu rifatto a spese 
          della parrocchia. Anche dal punto di vista statico i problemi si 
          fecero preoccupanti: una serie di profonde lesioni sulla facciata, che 
          si estendevano alla volta dell’ingresso e minavano la statica della 
          cupola, erano i segni del dissesto dei muri di fondazione del lato 
          verso via dei mulini, accentuato dalla scorretta apposizione dei 
          carichi del campanile , reso pericolante per lo scollamento dei muri 
          sottostanti di chiesa e casa (risolto solo nel 2002). Le coperture 
          minacciavano rovina, l’intonaco esterno era quasi del tutto degradato; 
          l’umidità interna rendeva rovinoso l’aspetto dell’interno. Era 
          necessario intervenire quanto prima, se si voleva salvare questo 
          edificio, e con un intervento radicale ed accurato.
          Un fattivo interessamento per la 
          salvaguardia della chiesa fu avviato da alcuni cittadini aderenti al  
          F.A.I. che promossero una campagna di sensibilizzazione a livello di 
          istituzioni e di cittadinanza che trovò l’appoggio della parrocchia di 
          San Pietro martire, proprietaria dell’immobile.
          Si prese carico della parte progettuale 
          ed esecutiva, a titolo gratuito, il prestigioso studio degli arch. 
          Vielmi e Rossi di Vigevano, noto per interventi sul patrimonio 
          artistico cittadino (castello, chiostro dell’Assunta). Si era 
          nell’anno 1991.
          All’inizio del 1992 fu elaborato un 
          progetto di interventi, coordinato dal prevosto mons. Cerri e dalla 
          delegazione F.A.I. di Pavia, con il contributo di enti, fondazioni, 
          associazioni, privati, professionisti e della Cooperativa muratori 
          e affini che intese ricordare il novantesimo di fondazione. Scopo 
          dell’intervento era il ripristino integrale della chiesa e dei locali 
          annessi, restituendo al culto chiesa e sagrestia e recuperando i 
          locali superiori per una destinazione culturale gestita dal F.A.I. I 
          lavori cominciarono lo stesso anno, con il rifacimento dei tetti della 
          chiesa e il riassetto statico e il consolidamento dell’intera 
          struttura, intervenendo particolarmente sulla cupola. Vennero inoltre 
          completamente rifatti gli intonaci interni ed esterni, dopo aver 
          tentato il risanamento del sottosuolo e delle murature. Con notevole 
          impegno, anche finanziario, si pose mano al recupero degli stucchi e 
          delle modanature della cupola. Furono consolidate le superfici e la 
          descialbatura permise il ritrovamento di tinte antiche insperate. Al 
          centro della cupola fu ritrovato l’affresco raffigurante angeli 
          musicanti, con annose lacune; i cartigli rilevarono cartelle 
          marmorizzate a finto marmo nero con scritte ormai illeggibili.  
          L’insieme, ripulito dalle pitture di inizio novecento, assumeva col 
          ripristino e il risarcimento accurato e discreto delle parti rovinate 
          un aspetto del tutto inimmaginabile agli inizi dei lavori, 
          perfettamente settecentesco. I restauri furono eseguiti dallo studio 
          Villa di Bergamo. L’altare marmoreo fu integralmente ripulito e 
          restaurato con integrazioni e stuccature.
          La prima parte dei lavori si concluse 
          nell’inverno del 1995. 
          La chiesa poteva dirsi completata, ad 
          eccezione del pavimento da posare sulla gettata in cemento del vespaio 
          d’ areazione; la sagrestia,col pavimento percorso da trincee per 
          l’impianto di riscaldamento e le pareti scrostate, appena agibile, 
          mentre gli altri locali erano ancora impraticabili. In una domenica di 
          marzo del 1996, per la giornata nazionale del F.A.I., il Cristo fu 
          aperto per la prima volta a numerosi Vigevanesi e turisti nel suo 
          rinnovato, e inaspettato, splendore.
          La sera del 1 maggio la chiesa è 
          finalmente riaperta al culto, per la recita quotidiana del S. Rosario. 
          Sull’altare è una vecchia tovaglia prestata da San Pietro martire; i 
          vecchi candelieri, trovati in solaio, sono allineati con le candele di 
          legno dipinto un pò inclinate; vasi di vetro scompagnati recano le 
          rose rosse dell’annoso albero rampicante sopravvissuto, presso la 
          scala del cortile, chi sa come, all’abbandono e al cantiere. Una 
          parrocchiana presta una piccola statua della Madonna in gesso. I 
          fedeli del vicinato cominciano ad affollare le funzioni: dalla legnaia 
          si riportano in chiesa i vecchi inginocchiatoi; gli scout prestano le 
          panchine, da cantine di gente amica saltano fuori vecchie sedie per le 
          persone che crescono ogni giorno di più di numero.
          Da questo momento, si fa carico la 
          parrocchia di San Pietro martire di trovare il modo di finanziare il 
          completamento dei restauri. Nell’estate si rende agibile la sagrestia, 
          ripristinando il grande armadio; solo in seguito sarà restaurata la 
          credenza settecentesca (rifacendo le ante scolpite trafugate anni 
          prima), e si provvederanno mobili e arredi, per lo più antichi, 
          provenienti da donazioni o acquisti. Nel 1997 viene rifatto il 
          pavimento della chiesa, utilizzando in parte le vecchie piastrelle di 
          cotto variegato originarie e in parte elementi nuovi imitanti quelle 
          antiche. Nel 1999 si revisionano le coperture della casa e a 
          completare gli impianti elettrici e di illuminazione; è sistemato il 
          cortile, riparata la scala esterna e il ballatoio, aggiustati e  
          verniciati i serramenti, costruito un servizio igienico. Nel 2001 si 
          affronta l’ingente spesa della ristrutturazione del campanile e della 
          casa: la muratura, per oltre tre metri ridotta in precarie condizioni, 
          è integralmente sostituita con materiale coevo, e si rinnovano 
          completamente gli intonaci di tutte le parti esterne con calce 
          colorata, secondo i dettami della Sovrintendenza. Anche il campanile è 
          restaurato, intervenendo sui pilastri della cella e sanando le lesioni 
          strutturali, legando tra l’altro i muri di facciata di casa e chiesa. 
          Nel 2002 sono demoliti i solai in legno della casa, semicrollati, e 
          ricostruiti mantenendo le caratteristiche originali: il rifacimento 
          coinvolge pareti e pavimenti, recuperando l’ambiente sottostante come 
          seconda sagrestia e quello superiore come saletta per riunioni. Nel 
          2003 è integralmente restaurata la scala interna e i pavimenti in 
          cotto originali, sostituendo le parti rovinate con materiale antico. 
          Le pareti interne della chiese, danneggiate negli intonaci a causa 
          dell’umidità perdurante, sono pure restaurate. Negli stessi anni si 
          provvede alla suppellettile della chiesa, rovinata e in parte 
          sottratta durante gli anni d’incuria; candelieri, reliquiari e gli 
          altri arredi sono integralmente restaurati e affiancati da altri, 
          spesso d’epoca. Anche il corredo di biancheria è ripristinato, grazie 
          all’opera di donne volenterose; i paramenti antichi sono restaurati e 
          se ne aggiungono di nuovi. Nel 2000 è rinnovata la via Crucis e 
          restaurata la statua della Madonna (affiancata nel 2004 da quella del 
          Sacro Cuore, e, in sagrestia, dai simulacri dell’Immacolata e di San 
          Giuseppe). Nel 2003 viene messo in sicurezza il tabernacolo; è 
          restaurata l’antica campana, affiancandone altre due, intonate, a 
          formare un piccolo concerto. Nella primavera 2005 si provvede 
          all’impianto di riscaldamento della chiesa, con termoconvettore. Nelle 
          stesse settimane viene acquistato da una chiesa di Torino il grandioso 
          organo a canne per rendere più solenni le liturgie, a 6 registri e più 
          di 300 canne, collocato nell’allargata cantoria sull’ingresso. Seguono 
          i lavori di finitura degli intonaci esterni (già in parte compromessi 
          dall’umidità), ripristinando le parti decorative della facciata, e 
          ponendo canali di gronda sul campanile e sulla cupola.
          Le numerose ultime opere sono state 
          realizzate con il contributo di fondazioni ed enti, ma soprattutto con 
          l’apporto costante e generose delle offerte dei fedeli.
          
          XII TRADIZIONI E FESTE
          Dopo la riapertura al culto, nel 1996, si 
          è tornato a festeggiare il giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, 
          il 14 settembre, festa titolare della chiesa con un triduo di 
          predicazione e il Vespro cantato e la Messa solenne il giorno della 
          festa, conclusa con la benedizione con la reliquia della Santa Croce, 
          conservata abitualmente in sagrestia, esposta sull’altare in quei 
          giorni. Negli anni la partecipazione dei fedeli è continuamente 
          cresciuta insieme all’addobbo interno ed esterno della chiesa, così da 
          ricreare il clima di festa rionale d’altri tempi, che coinvolge 
          specialmente gli abitanti dei dintorni. Acconto ai riti religiosi, si 
          sono unite altre manifestazioni, come concerti di musica sacra (per lo 
          più da camera) e iniziative volta a raccogliere fondi per i restauri, 
          come l’incanto delle torte e il pozzo di San Patrizio. Fin dalla prima 
          edizione (2001) il concerto di chiusura delle feste patronali 
          cittadini per il Beato Matteo, che si svolge con grande partecipazione 
          nella chiesa di San Pietro martire la terza domenica d’ottobre, si è 
          prefissato la raccolta di fondi per i restauri del Cristo.
          Fino alla chiusura della chiesa, la festa 
          del Cristo era molto sentita e partecipata, e continuava alla terza 
          domenica di settembre (dopo la festa della Madonna dei sette dolori). 
          Il più antico resoconto, si trova in una memoria del parroco di San 
          Cristoforo don Ambrogio Vismara, che nel 1790, parlando delle feste 
          della parrocchia scrive al n°10: finalmente, la domenica fra 
          l’ottava dell’Esaltazione della Santa Croce il Parroci nella chiesa 
          del Cristo, volgarmente detta “della Resega” celebra la festa solenne 
          della Santa Croce. Ivi assiste alle confessioni, canta la Messa 
          solenne, si dà la benedizione col SS.mo Sacramento alla mattina e alla 
          sera si mette alla riffa un agnello, dal quale per lo più si ricava il 
          doppio. Per tutto questo il parroco non riceve alcun emolumento 
          essendo l’amministratore e il benefattore di detta chiesa
           Da qualche anno, poi, si usa festeggiare 
          con Messa solenne, esposizione del quadro, e bacio della reliquia, la 
          festa di San Luigi Gonzaga, il 21 giugno, con la partecipazione della 
          gioventù della parrocchia.
          Durante l’anno, oltre alla recita 
          quotidiana del S. Rosario durante il mese di maggio, si svolge nei 
          venerdì di quaresima la pratica della Via Crucis. Il giovedì santo si 
          allestisce il tradizionale altare della reposizione, che viene 
          visitato da moltissimi fedeli, che hanno aggiunto il Cristo al giro 
          dei sette sepolcri. Il venerdì santo, poi, si espone, secondo 
          la tradizione, il crocefisso ligneo usualmente appeso in sagrestia.
          Parlando di tradizioni, è bene accennare 
          a quanto raccontano i nostri vecchi. Nei tempi andati, si racconta, la 
          chiesa del Cristo era meta di quanti pregavano per essere liberati da 
          malattie o possessioni diaboliche. Venivano davanti all’altare 
          recitate dai sacerdoti preposti, le preghiere rituali di esorcismo, a 
          cui seguiva la benedizione con la reliquia della Santa Croce. Essa, 
          d’altronde, è lo strumento di vittoria che ha cancellato nell’uomo, 
          redento dal Cristo salvatore il peccato. I vecchi, per l’appunto, a 
          confermare questa usanza, mostrano le quattro figure grottesche che 
          ornano i cartigli degli spicchi della cupola, appena sopra i 
          cornicioni: quelli verso l’altare hanno sembianze demoniache (con 
          corna molto ben marcate).
          
          
          XIII – UN PO’ DI CATECHESI
          In otto cartigli della cupola sono state 
          dipinte alcune scritte in latino, inneggianti alla Santa Croce, tratte 
          dal Breviarium Romanum 
          per la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Può essere 
          interessante leggerle e commentarle.
          Cominciamo dalla calotta della cupola: 
          verso l’altare i due cartigli vanno letti assieme, da destra: 
          PER LIGNUM  / SERVI /  FACTI SUMUS 
          e PER LIGNUM / REDEMPTI /  SUMUS 
          
          (ant.1 vesperis)
          PER IL LEGNO SIAMO STATI FATTI SCHIAVI - PER 
          IL LEGNO SIAMO STATI REDENTI.
          A causa del 
          frutto dell’albero del Paradiso Terrestre  (lignum) 
          Adamo e la sua discendenza furono prigionieri del peccato, fino a 
          Cristo, nuovo Adamo, che con la sua morte sul legno della Croce ha 
          redento dal peccato l’umanità.
          Lo stesso per 
          i due cartigli di fronte, verso l’ingresso: 
          HOC SIGNUM / CRUCIS ERIT / IN COELO e CUM 
          DOMINUS / AD IUDICANDUM /  VENERIT 
          (ant. 1 
          Vesperis)
          QUEESTO SEGNO DELLA CROCE SARA’ IN CIELO 
          QUANDO VERRA’ IL SIGNORE A GIUDICARE 
          Il segno della 
          Croce, strumento della redenzione dell’umanità, sarà il cielo il 
          giorno del giudizio universale, quando Cristo verrà nella 
          gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine.
          Sulla cupola, 
          a destra, verso l’altare:
          CHRISTE REX / PRO NOBIS IN CRUCE / EXALTATUS
          
          (ant. Inviatatorium in 
          matutinum)
          CRISTO RE 
          PER NOI INNALZATO SULLA CROCE
          
          Come nell’Antica Alleanza il serpente 
          innalzato sulla verga di Aronne fu strumento di salvezza per il popolo 
          d’Israele, così Cristo, Figlio di Dio, appeso alla croce è il mezzo 
          per cui sono salvati i battezzati, nuovo popolo d’Israele. La croce è 
          il trono da cui regna e sconfigge le tenebre e il peccato Cristo, Re e 
          Signore dell’Universo
          
          Nel cartiglio a sinistra:
          SALVATOR 
          MUNDI / SALVA NOS / PER CRUCEM TUAM
          (ant. 
          In III nocturno)
          SALVATORE DEL MONDO SALVACI PER LA TUA CROCE
          La Croce di 
          Cristo, nel misterioso compimento della volontà di Dio, è il mezzo 
          della redenzione dell’uomo, che viene così associato alla passione e 
          morte del Signore per essere con lui glorificati nella Sua 
          resurrezione.
          Nel cartiglio 
          a destra, verso l’ingresso:
          ECCE CRUCEM DOMINI / FUGITE / PARTES ADVERSAE
          (ant. I 
          ad Laudes)
          ECCO LA CROCE DEL SIGNORE : FUGGANO I SUOI 
          NEMICI
          La croce di 
          Cristo ha salvato l’umanità spezzando il giogo del peccato che 
          allontana gli uomini da Dio: il diavolo è così sconfitto e la morte 
          non ha più potere.
          In quello a 
          sinistra:
          CHRISTE / PER CRUCEM TUAM / REDEMISTI MUNDUM
          (ant. 
          In III nocturno)
          CRISTO, PER LA TUA CROCE HAI REDENTO IL MONDO
          Il mondo, pur 
          ferito dal peccato, ha la possibilità di partecipare alla sua 
          redenzione, attraverso la croce di Cristo.
          
          
          XIV – GUIDA 
          ARTISTICA
          La chiesa del 
          Cristo 
          si affaccia oggi direttamente sulla strada, preceduta da un breve 
          marciapiede, niente affatto sicuro per i passanti. Davanti, si nota, 
          tra il selciato di via Rossini la sagoma del vecchio sagrato, 
          delineato da pianelle in sasso recanti la scritta P.P.
           Esso si estendeva in forma di 
          trapezio irregolare, seguendo il corso della via Rossini (un tempo più 
          stretta e delimitata da alte siepi) deviante verso l’imbocco di via 
          del Carmine. Era delimitato da pilastrini in granito rosa (tre verso 
          via dei mulini e tre dalla parte opposta) collegati da stanghe di 
          ferro. Le due file, al centro, erano separate da una colonnina senza 
          spranghe per l’accesso; i pilastrini furono purtroppo rimossi negli 
          anni cinquanta del novecento, per pretese ragioni viabilistiche: 
          rimane solo uno di essi, murato nel muro della casa, sullo spigolo.
          La facciata 
          della chiesa è sviluppata verticalmente, delimitata da due lesene 
          d’ordine gigante terminanti in capitelli corinzi su basi che 
          sostengono il timpano triangolare e il cornicione sottostante 
          mistilineo che segue un’ampia riquadratura delimitata da cornice, che 
          conteneva una riproduzione ad affresco del dipinto sull’altare, già 
          del tutto scomparso agli inizi del novecento. Il portale, è delimitato 
          da paraste e sormontato di timpano ad arco ribassato con al centro un 
          riquadro decorativo.
          Il fianco
          verso via Rossini, libero, mostra l’elegante decorazione a paraste 
          e lesene a due ordini: quello superiore presenta nei lati corti 
          riquadri sagomati. La facciatina del braccio laterale mostra in alto 
          la finestra mistilinea: quella rettangolare, in basso, fu aperta 
          nell’ottocento per migliorare l’illuminazione interna, senza alcuna 
          connessione con l’insieme architettonico. Sopra il tetto si eleva la
          cupola, intradossata, coperta da semplice tetto a otto falde 
          sostenuto da pilastrini in mattoni: nei lati dritti si aprono finestre 
          mistilinee. Questa parte della chiesa non fu mai completata, e rimase 
          al rustico; sul colmo della cupola alcuni mattoni reggono un pomo in 
          sasso reggente la croce in ferro. Accanto alla facciata, addossato, è 
          il campanile, la cui cella, aperta da finestre rettangolari, si 
          eleva appena sopra l’innesto del timpano della facciata. Vi è 
          collocato un piccolo concerto di tre campane, inaugurato dal Vescovo 
          mons. Baggini, il 14 settembre 2003: la maggiore, risalente al 1690 è 
          la più antica campana funzionante su un campanile della città; le due 
          minori sono le più recenti. 
          Accanto è la semplice facciata della casa abitata un tempo dal 
          custode: la finestra più piccola, in basso, recava un tempo 
          un’elegante sagomatura barocca, non più ripresa dopo i restauri del 
          2002. Oltre si apre un piccolo cortiletto alberato con portico adibito 
          a deposito della parrocchia; un roseto rampicante da ottant’anni 
          decora la scala esterna.
          Si accede all’
          interno dal portone in legno, consolidato e restaurato 
          recentemente, che reca all’interno, nelle ante superiori, l’incisione
          1751. Nell’andito, a sinistra, 
          è appesa un’artistica scultura realizzata e donata nel 1998 alla 
          chiesa dall’artista vigevanese Angelo Penza raffigurante il Cristo 
          crocefisso. Sopra l’ingresso è la cantoria in legno, decorato con 
          specchiatura di gusto ottocentesco, ampliata nel 2005 in occasione 
          della collocazione dell’organo liturgico a canne, acquistato 
          dalla basilica di San Lorenzo di Torino. Lo strumento, giudicato di 
          pregio, della casa organaria Chichi-Tamburini, è stato realizzato nel 
          1972 e restaurato nel 1995 e nel 2005 nella nuova collocazione; ha 6 
          registri e 300 canne.
          Oltre la 
          tribuna, alzando gli occhi si può ammirare la splendida architettura 
          della chiesa: pur nelle ridottissime dimensioni, l’ignoto architetto 
          ha realizzato un organismo elegante e grandioso, proiettato 
          nell’artistica cupola, riccamente decorata con stucchi a forte 
          rilievo. La chiesa è a pianta centrale e corpo ottagonale con quattro 
          bracci perpendicolari: quelli dell’ingresso e dell’altare sono 
          dilatati e coperti da volta a botte ornata di tre cassettoni 
          baroccamente sagomati in riquadrature ornate di volute e teste di 
          putto in stucco. Le pareti laterali sono percorse da semplici lesene 
          terminanti in un cornicione aggettante con particolari di gusto 
          classico. I lati trasversali dell’ottagono sono occupati da grandi 
          basi per le sovrastanti colonne binate con riquadro a finto marmo; 
          quelli verso l’ingresso recano due acquasantiere a forma di conchiglia 
          in marmo rosso; verso l’altare a destra, è la vecchia cassetta delle 
          elemosine in ferro, con cartiglio con scritta dorata. Sopra le basi si 
          elevano otto colonne binate dipinte in nero terminanti in capitelli in 
          stucco di eleganti linee barocche con volute, riccioli, frutti, fiori 
          e volti di putti. Le lunette dei bracci sono occupate lateralmente da 
          finestre mistilinee (quella sinistra è solo dipinta), sopra 
          l’ingresso, dalle canne di facciata (in zinco) dell’organo, e 
          sull’altare da un affresco raffigurante tre angeli con nuvole e 
          palmette (simboli del martirio) di inizio novecento. Sopra il 
          cornicione si innesta il tamburo della cupola, occupato nelle 
          vele sopra le colonne da quattro grandi cartigli mistilinei delimitati 
          da cornici in stucco che, attraverso festoni con frutti, si collegano 
          ad altrettanti medaglioni ovali sopra gli archi dei bracci. Sopra i 
          cartigli (che recano su fondo nero marmorizzato scritte in oro 
          inneggianti alla Santa Croce) sono volti d’angelo alati, e sotto facce 
          grottesche. Questa parte è conclusa da una cornice recante decorazioni 
          a rilievo colorato che lasciano il posto, sulla sommità, a curiose 
          decorazioni in stucco a motivi alternati. Qui comincia la vera calotta 
          della cupola, innestata però a filo dei muri inferiori; in questo 
          modo, unitamente all’illuminazione soffusa di quattro finestre 
          mistilinee, è creato un singolare effetto prospettico che pare 
          dilatare ulteriormente gli spazi. Le finestre sono incorniciate da 
          decorazioni in stucco con volute e putti sovrastate da cartelle simili 
          a quelle sottostanti, a loro volta inquadrate da cornici con 
          decorazioni e conchiglie. Lateralmente si allungano otto fasce 
          decorative costituite da teorie di frutti terminanti con figure intere 
          di putti che sostengono l’articolata cornice, con parti dorate, a 
          forte rilievo, contenenti un affresco di angeli musicanti con putti e 
          strumenti musicali, di curiosa fattura arcaizzante, coeva alla cupola 
          (1750 circa): al centro tre cerchi di volto d’angelo delimitano una 
          raggiera eucaristica. Il dipinto mostra gravi lacune, non risarcite 
          durante l’ultimo restauro, e già esistenti nel 1901; in occasione di 
          quell’intervento l’affresco era stato coperto da un dipinto 
          raffigurante la colomba dello Spirito Santo.
          Nella parete 
          del braccio sinistro sono allineate le stazioni della via Crucis: le 
          cornici in legno dorato appartengono i quadretti originari, un tempo 
          appesi alle pareti, contenenti preziose stampe settecentesche. Furono 
          trafugate anni fa e furono rimpiazzate dalle attuali riproduzioni a 
          colore, benedette il 14 settembre 2001. 
          L’unico 
          altare è sovrastato dall’affresco contenuto in nicchia centinata 
          ad arco (lo spessore è dipinto a finto marmo), protetta da vetro con 
          cornice in legno e gesso decorato e dorato di metà ottocento. A quell’epoca 
          appartiene l’ancona dipinta con tinte imitanti il marmo con illusioni 
          di rilievo architettonico (la si osservi di lato per coglierle). Di 
          gusto neoclassico, è costituita da due colonne con capitello ionico 
          reggenti la trabeazione culminante in volute di gusto classico.
          Sollevato da 
          due gradini in marmo rosso (rifatti modernamente), si trova l’elegante 
          altare di linee barocche in marmi policromi elegantemente sagomati: di 
          particolare pregio l’articolato paliotto sotto la mensa; questa 
          presenta il vano della pietra sacra col sacello delle reliquie e le 
          croci della consacrazione. Abbiamo già accennato circa la provenienza 
          originale dell’altare, eseguito da maestranze lombarde di inizio sec. 
          XVIII. Ai lati dell’alzata per i candelieri è il grande tabernacolo 
          marmoreo, di elaborata architettura: lo sportello è incorniciato da 
          pilastrini con capitelli corinzi in stucco. Il tabernacolo in metallo 
          a cassaforte è stato collocato nel 2003, restaurando e dorando lo 
          sportellino in lamina di rame sbalzata con l’esaltazione della Santa 
          Croce (inizi sec. XIX). Dal 5 aprile 2000, col permesso del Vescovo, 
          si conserva regolarmente il SS. Sacramento. Ai lati sono sospese due 
          lampade in ottone e in alto una corona in legno scolpito e dorato 
          (seconda metà sec. XVIII) da cui si tende il padiglione in seta nelle 
          feste solenni, secondo l’antica consuetudine. A lato dell’altare, a 
          destra, è l’incavo per le ampolline, con cornici in stucco.
          All’incontro 
          dei bracci laterali, su basamenti in legno di noce scolpito (ricavati 
          dagli inginocchiatoi dello Scurolo del Beato Matteo, di inizio 
          novecento), sono le statue in gesso della Madonna Assunta e del Sacro 
          Cuore di Gesù.  Accanto, tra le colonne, due quadri raffigurano San 
          Pio da Pietralcina e il Beato Giovanni XXIII. Accanto al finestrone 
          del braccio destro (entro cornici) e tra le colonne verso l’altare 
          sono appesi molti cuori ex voto in metallo e argento, alcuni dei quali 
          aggiunti negli ultimi anni; un tempo erano ancor più numerosi e 
          ricoprivano le colonne e le pareti attorno al dipinto del Cristo 
          Crocefisso. I banchi, moderni, sono stati offerti nel 1999; i vecchi 
          inginocchiatoi, ottocenteschi, sono collocati nelle stanze al piano 
          superiore della casa.
          Nel braccio 
          sinistro si apre la porta che conduce alla sagrestia, locale 
          piuttosto vasto, coperto da volta a padiglione con vela in 
          corrispondenza della finestra. La parete verso la chiesa è occupata 
          dal banco da comunione in noce, baroccamente sagomato (sec. XVIII) un 
          tempo davanti ai gradini dell’altare a mò di balaustra. Sopra è appeso 
          un grande crocefisso ligneo dipinto, della seconda metà del ‘700, e 
          accanto due medaglioni in stucco con il volto della Madonna Addolorata 
          e di San Giovanni Apostolo, importanti sculture del settecento 
          lombardo, singolari per la forte espressività drammatica. Erano appesi 
          accanto all’affresco, in chiesa; sono stati restaurati nel 1998 
          recuperando la cromia antica. Dalla parte opposta è la bella credenza 
          in legno di noce del 1754: sottratte le ante e compromessa gravemente 
          da tarli ed umidità, è stata reintegrata e restaurata nel 2002. A lato 
          è un grande armadio murato in legno (coevo alla costruzione della 
          sagrestia) restituito nel 1998 (era ricoperto d’intonaco da muro) e di 
          fronte un mobile di fine ottocento, dalla tipica conformazione da 
          sagrestia, acquistato nel 2002. Dal soffitto pende un prezioso 
          lampadario ottocentesco, in cristallo, donato nel 2004. La chiesa 
          possiede alcuni pregevoli arredi settecenteschi: una serie di 
          carteglorie, reliquiari ad ostensorio e candelieri recanti nel piede 
          la Crocefisso, in lamina di rame argentato sbalzato e cesellato, 
          completamente restaurati recentemente; si sono aggiunti numerosi altri 
          arredi per la maggior parte antichi, con acquisti mirati dal mercato 
          antiquario. Si è andato ad arricchire il corredo di paramenti sacri, 
          ricostituendo quello originario, solo in parte giunto a noi.
          Attraverso una 
          porta, antica, si accede al corridoio che immette in un locale di 
          servizio, con soffitto ligneo (restaurato), ove si ripongono gli 
          arredi della chiesa. Si noti il grande armadio con ante sagomate degli 
          inizi del sec. XVII (giaceva ridipinto e tarlato in un deposito della 
          Parrocchia). Per una porticina si accede al piano superiore, 
          attraverso la scaletta a chiocciola in mattoni, piuttosto irregolare, 
          ripristinata nel 2002. Dal ballatoio si accede alla cantoria della 
          chiesa, alle corde delle campane e a un corridoio che immette in una 
          saletta per incontri con soffitto ligneo anch’esso restaurato; tra i 
          mobili antichi, l’armadio contenente l’archivio della chiesa, con ante 
          sagomate in stile di inizio ottocento (donato nel 2001). Nell’altro 
          locale, si noti il pavimento originario in cotto variegato (analogo a 
          quello della chiesa). 
          
          
          XV – 
          PREGHIERA AL SS. CROCEFISSO 
          Nel settembre 
          2003, a seguito di numerose richieste, sono state stampate in migliaia 
          di copie le immagini con la riproduzione del SS. Crocefisso e la 
          preghiera appositamente composta dal Vescovo mons. Baggini.
          SIGNORE GESU’ CRISTO, SIAMO QUI DAVANTI  A TE 
          A RENDERTI GRAZIE PERCHE’ OFFRENDO LA TUA VITA E VERSANDO IL TUO 
          SANGUE SULLA CROCE, HAI REDENTO L’INTERA UMANITA’ E HAI CANCELLATO I 
          PECCATI DEL MONDO. DA QUATTRO SECOLI ATRAVERSO QUESTA SACRA IMMAGINE
          
          TU DISPENSI ABBONDANTI GRAZIE AI TUOI FEDELI E 
          ORA CI RINNOVI L’INVITO A VENIRE A TE. GUARDA A NOI CHE DAVANTI AL TUO 
          ALTARE IMPLORIAMO LA TUA DIVINA MISERICORDIA. PER I MERITI DELLA TUA 
          PASSIONE E MORTE, ACCOGLI LA NOSTRA DOMANDA DI PERDONO E DI AIUTO, E 
          DEGNATI DI CONCEDERCI LE GRAZIE CHE CON CUORE SINCERO IMPLORIAMO. TE 
          LO CHIEDIAMO FIDUCIOSI NELL’INTERCESSIONE DEI SANTI FRANCESCO E 
          CATERINA GENUFLESSI AI TUOI PIEDI. INSEGNINO A NOI LA VIA PER SEGUIRE 
          TE E UNIRE LA NOSTRA VITA AL SACRIFICIO DELLA CROCE CHE OGNI GIORNO 
          RINNOVIAMO NELL’EUCARISTIA.    AMEN
           CHRISTO 
          REGE