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Città di Vigevano

CONFERENZE

CON CERTO
 
   
   

 

 


atro Cagnoni

 

30 novembre 2003
13 dicembre 2003
20 dicembre 2003
ore 17.00

Ridotto Te

     

***

Le Cantate di
GIACOMO CARISSIMI
(Marino 1605 - Roma 1674)

 

Tra i più remoti abissi dell'Erebo profondo

Cantata per due soprani, basso e basso continuo

 

Tra più remoti abissi dell’Erebo profondo
Sciolgonsi l’ombre a dar la fuga al giorno
Già tutta fuor dalle tartaree grotte
sovra carro stellato esce la notte.

Levate gl’occhi al cielo egri viventi
Come la fronte in Cielo n’alzo Natura
Leggete nelle stelle all’aria scura
De nostri chiusi fati i dubbi eventi.

Scritti lassù da eterna man vedrete
In caratteri di luce afflitti amanti
I nostri brevi risi e i lunghi pianti
Da cui rivi Amor fero ha tanta sete.

Se lassù nel Ciel sereno scritta a pieno
Fu l’istoria de miei danni
Or ch’in Ciel raccende ogni facella
Chi m’addita la mia stella.

Se gli è ver che dalle fasce
huom che nasce ha del Ciel sorte o disastro
di qual astro piove il destin
ch’a lagrimar m’appella,
chi m’addita la mia stella.

E se il meschino per lungo piangere
Ne men può frangere l’empio destino
Il sospirar, il lagrimar che pro.

S’egli è si forte mia dura sorte
Che vincer non si può
Il sospirar, il lagrimar che pro.

Ahi cielo, ahi notte di pietà rubella
Chi m’addita la mia stella

Frenate i pianti meschini amanti
Ch’a lunghi preghi vien che si pieghi duro destino
E spesso i numi irati cangiano i fati
E spesso il saggio, il forte
Fabbro a se stesso e di beata sorte.

Notte gelida e serena che de’ miseri mortali
L’alme acqueti e sgombri i mali
Mentre i corpi il sonno affrena.

Coi fulgor delle tue stelle
Il Pilota apra le vele
Gli dai tu per mar crudele
Approdar le rive belle.

Tu del sole ai caldi lampi
Col tuo giel tempri l’arsura
Tu ristauro di natura
Di rugiade inondi i campi.

Deh piovete o stelle amiche
Sovra noi raggi vitali
Fin per noi s’habbiano i mali
E i travagli e le fatiche.

Deh piovete o stelle amiche
Sovra noi raggi vitali
Fin per noi s’habbiano i mali
E i travagli e le fatiche.

 

Suonerà l'ultima tromba

Cantata per soprano e basso continuo


Suonerà l’ultima tromba;
né vi pensano i mortali.
Ha la morte al tergo l’ali,
e dappertutto il nome suo rimbomba.
Oh, da qual cieca nube, egri viventi,
s’offusca il vostro core?
Sa ciascun che si more;
né si trova fra noi chi ne paventi.
Son domestici spaventi
i terrori della morte;
cred’ogn’huom d’avere in sorte
viver più degl’elementi;
pur non passano i momenti
ch’i sepolcri aperti sono;
e mentr’io così ragiono,
quanti andran’ morti alla tomba?
Suonerà…
Che noi siam’cenere e polve,
che breve è questa vita,
ch’al girar di poch’ore,
il Ciel dissolve la vanità, si follemente ambita;
si sa, si sa ch’è verità scesa da’Cieli.
E pur sogni parrà ch’io vi riveli:
che quanto è di vago
a credula gente
è semplice immago
d’un bene apparente.
Che quanto risplende
negl’ostri d’un volto
da brevi vicende
negl’ombre è sepolto.
Che a reggia Fortuna
d’invitto Monarca
crudel’ importuna
non cede la parca.
Si sa ch’è verità…

Parlate voi, parlate
cadaveri sepolti,
e contro noi rivolti,
spettacoli d’orror, l’ossa mostrate.
Parlate voi, parlate,
e dite, fra piaceri
quanti giacciono qui trassar la vita
di gioventù fiorita,
sperando al volto lor secoli interi.
Morte al fin tra quest’ombre ecco gl’involve,
e non resta di loro altro che polve.
In fresch’età
quei che si fidano
mal di confidano;
gioir si credano,
ma poi s’avvedano
ch’è vanità.
D’un solo dì
quei che si pentano
non si dispensano.
L’ore che sonano
sempre v’intonano
viver così.
Ieri già fu;
come vi lassano
gl’anni che passano.
Le tombe insegnano
che mal s’impegnano
l’alme quaggiù.

Io, dall’ossa sepolte e incenerite,
cerco ritrar’ consiglio per l’alme non pentite.
E pure invano chiedo aiuto lontano,
se frequenti quaggiù sono i perigli.
Amico, a cui poch’anzi
su le guance fiorivano ligustri e rose,
tra gli infelici avanzi
d’una morte crudel le membra ascose.
Ahi, ahi, che veduto esempio
non vale a mover’ l’empio,
che ne falli sepolto in varie forme.
Benché il cielo lo desti
con avvisi funesti,
dal letargo dei vizi oppresso, dorme.
 
 

Che legge è questa, o Dio ?

Cantata per basso e basso continuo


Che legge è questa, o Dio?
Legge di crudeltà: caddi dal Paradiso e non peccai.

Nella mia fé costante adoratore,
amante di due pupille,
ai rai vittima di dolore,
su l’altar del mio seno offersi il core;
e se fu dolce allora il mio desire
il tormento, il martire, Amor lo sa.

Per sì bella cagione
avrei saputo, senza difesa o scudo,
correre a petto ignudo
dove l’alme più crude alberga Pluto.

Oh! Quante volte Amore,
alle mie gioie intento,
seppe con man cortese
temprar dentro il mio core,
con le proprie dolcezze, il mio tormento.

Ma dove mi portate
a raddoppiar memorie al mio dolore?
Misero; oh!, qual d’intorno
fiere nubi funeste,
gravide di tempeste,
coprono, ohimè, delle mie gioie il giorno;
più non mi giova, ohimè,
la costanza e la fé.

Allor che di goder viepiù sperai,
caddi dal Paradiso e non peccai.

Perfida, non è vero
che mai fiamma d’Amor t’ardesse il seno;
no, non è vero che t’accendesse il petto,
della face d’Amor, lampo o baleno.
Ah! Che furon bugiardi
i sospiri, gli sguardi;
fu mentita la fede:
misero chi tropp’ama e troppo crede.

Come, come imparasti
a violar, crudele,
quella candida fé che mi giurasti?
Dove, dove t’ascondi,
empia che non rispondi?
Dimmi: chi t’insegnò,
chi ti spinse a tradire un innocente?
Che te solo adorò,
che non t’offese mai?
Caddi dal Paradiso e non peccai.

A voi mi volgo, o pene:
rendetemi il mio sole,
rendetemi il mio bene,
la mia vita, il cor mio.

Non è ragione, o Dio,
che s’Amor me lo dié sdegno l’invole,
rendetemi il mio sole,
quel sol ch’adoro tanto.

Ma dove sono, ohimé, folle che bramo:
son mendaci gli accenti,
è bugiardo il desio,
non adoro, non amo.

Non più di pianto torbido nembo
corra dal ciglio ad inondarmi il grembo;
ragion m’ha fatto mio:
restate in pace, occhi crudeli; a Dio!
Non ardo più, no:
è spento l’ardore
ch’il core sì forte infiammò.
Non ardo più, no.

Non è più misero, mio cor, qual fu;
bellezze che risero
non stringon più ne’ lacci il piede:
a chi fede non ha, tolsi la fede.
 

I filosofi (Ai pié d'un verde alloro)

Cantata per due soprani e basso continuo


A piè d’un verde alloro assisi un dì
Eraclito e Democrito sui fiori,
Vider per l’aria andar schiere d’Amori
E tra lor favellarono così:
E’ pur da ridere
E’ pur da piangere,
Sentir ognor gli amanti stridere,
Ch’un duro cor non si può frangere.

Oh miseria, oh follia!
Se l’empietà
Di ria beltà
Piegar non lice,
Fuggi, mori infelice!
Ché d’un penoso amor il lungo tedio
Altro rimedio
Alfin non ha, no no,
Che fuggir,che morir, come si può.

E come puote un moribondo amante
Alla fuga fidar l’inferme piante,
Come scampar d’una beltà severa,
Se, dovunque egli fugga, Amore impera.
E’ pur da ridere...

Se al pregar un cor s’indura,
Taci, prega ché s’avrà
Da cangiar giammai ventura,
Tuo desir, tua ferita
Al pregar, al tacer si cangerà.

Non conviene
Tra catene
A chi certo è di morte
Gettar i prieghi, non tentar la sorte.
E in dono avete e coi sospir mercate:
Son le gioie d’Amor sempre più grate.

Ma che, mentre il rigor d’alta bellezza
Suol nudrirsi di lagrime, a che vale
Alimentar col pianto il proprio male?
Han le lagrime ancor qualche dolcezza,
Poiché, piangendo un core,
Spesso annega nel pianto il suo dolore.
E’ pur da ridere...

Quanti, quanti, perché si lagnano,
Mai non trovan mercé;
Quanti muoiono, perché
Dentro ai lor petti i pianti stagnano.
Deh scopri,
Deh cela,
Ricopri,
Rivela,
Amante, il duolo atroce,
Poiché in amor per prova
Quel che nuoce una volta,
Un’altra giova.
 
 

Mesto in sen d'un antro ombroso

Cantata per soprano e basso continuo


Mesto in sen d'un antro ombroso
dato in preda a pena rea,
la sua bella Galatea,
sospiroso, lagrimoso,
Tirsi un dì così piangea:

O mia morta, mia morta speranza,
o mio perduto, mio perduto bene,
qual perverso destino a me ti tolse?
Teco da me partendo portasti,
o Galatea, l'anima mia,
doglia funesta e ria
meco solo soggiorna,
deh torna, Galatea, torna, deh torna!

Del sol lucido e sovrano
i lucenti aurei splendori
son per me mortali orrori
mentre a te vivo lontano.

Dolce piange in sull'albore
l'usignol sua pena ria,
ma sì dolce melodia
non lusinga il mio dolore.

Lagrimoso e dolente
per queste selve errando invan ti chiamo,
del vicino ruscello al mio lungo chiamar
gemon le sponde, ma solo alle mie voci
Galatea replicando Eco risponde;
queste luci piangenti di rimirare, ahi lasso,
questo prato vicin più non son vaghe,
non è bel che m'appaghe mentre privo rimango
di tua beltàde adorna.
Deh torna, o Galatea, torna, deh torna!

Volate sospiri,
narrate al mio bene
l'acerbe mie pene,
miei duri martiri.

Deh torni, e rimiri
quest'alma che more,
racqueti d'un core
gli accesi desiri,
volate sospiri.

Quando dell'aureo sol l'accesa chioma
per li campi del cielo spargea
più caldi e più focosi i raggi
nel seno di quest'antro godevamo
danzando di placid'ombra dolcemente al rezzo,
e dell'aure soavi al sussurro sonoro
passavamo del dì l'ore più gravi,
così dolcemente memoria or mi sembra tormento
e quest'antro che un tempo fu
dell'alte mie gioie un paradiso,
per mio dolore eterno
or s'è fatto di duol penoso inferno;
dell'usato mio duolo altra speme di ben
non mi distorna.
Deh torna, o Galatea, torna, deh torna!

Nel mio cor s'è fatto stabile
il martir per mio tormento,
toglier puote il duol ch'io sento
del tuo volto un guardo amabile;
senza te sempre sarò
vivo al duol, morto alla gioia.

Mi tormenta e mi dà noia
questa vita che gradita
da te lungi esser non può:
più viver non vuò,
la morte è diletto
al misero petto,
con l'anima fuore
se n'esca il dolore,
in sorte sì grave morir m'è soave.

Ché a cuore innamorato
lontan dal ben ch'adora
sembra dolce il provar
l'estremo fato.
 

Sciolto havean dall'alte sponde

(detta "I naviganti")

Cantata per due soprani, basso e basso continuo

 

Sciolto havean dall'alte sponde
nave d'or due tristi Amanti,
e cader facean sull'onde
per tributo un mar di pianti.

Eran lingue di tormento
i sospir ch'uscian dal seno
e diceano al mare al vento
ch'in amor non v'è sereno.

Amor non più, non più.
Se la Dea che dal mar nacque
sua madre fu, ah, ch'al foco d'amor
non bastan l'acque.

Due pupille che son nere,
chiare fonti di splendore,
son tra fiamme in vivo ardore
al mio cor sempre severe.
Non vola mai strale
che foco mortale
al sen non porte:
sembran fiamme di vita,
e son di morte.

Non sperar, folle mio core,
libertate alle tue voglie:
laccio d'or che stringe Amore
mai dal piè non si discioglie.

Su guancia di rosa
auretta gentile
scoteva odorosa
crin d'oro sottile;
e l'alma restò legata in quel crine:
i tesori d'amor sono rapine.

Amor non più, non più.
Se la Dea che dal mar nacque
sua madre fu, ah, ch'al foco d'amor
non bastan l'acque.

Udite, udite, Amanti:
chiudete il varco a le querele, ai pianti,
ritogliete la prora al mare infido;
tornate Amanti, ohimè, tornate al lido.
Misero, oh qual vegg'io atre nubi funeste,
gravide di tempeste,
già già portar d'intorno
Austro nemboso ad oscurare il giorno.
Che, non mirate, o Dio,
come per l'alto del flusso marino
a salto a salto sen corre il delfino?
Udite, udite come da l'arenosa sponda
con flebili accenti,
stridolo augel loquace,
chiama su l'onde a guerreggiar i venti.
Udite, udite come a poco a poco
il mar dal più profondo
con strepito roco
va raddoppiando il grido
e minacciando il mondo
varca irato le sponde e lascia il nido.
Tornate Amanti, ohimè, tornate al lido.

Fosco vel copra le stelle,
frema il vento, il mar s'adiri.
Chi d'Amor soffre i martiri
sa sprezzar nembi e procelle.

Senza speme di mercede,
o qual diemmi il Fato avaro,
d'aspro duol, di pianto amaro
vasto Egeo che non ha fede:
mova pur Fortuna il piede
scopra il ciel luci rubelle
sempre irate a' miei desiri.
Chi d'Amor soffre i martiri
sa sprezzar nembi e procelle.

A miei danni, a mia rovina
si scateni Euro fremente:
I sospir d'un core ardente
daran pace alla marina:
al soffiar d'anima alpina
stenda Il ciel nubi novelle
tempestoso il mar s'aggiri.
Chi d'Amor soffre i martiri
sa sprezzar nembi e procelle.

Tacquer gl' Amanti a pena,
che di sì strano ardire
sdegnossi il mare e il vento.
Quand'ecco in un momento
s'empie Il cielo di lutto,
freme l'aria sdegnata
e intorno spira,
con sembiante mortal,
terrore il flutto.

Miseri, e che sarà?
O spavento, o pietà:
per quell'umido regno
corre agitato il legno
sentier di morte,
e pare aprir la tomba
infuriato il mare.

Amanti, che dite?
Sospirate, piangete,
lagrimate, fuggite,
fate quanto sapete
non si cangia, in Amor, Fortuna o Fato.
Ahi, ch'è sempre infelice, un sventurato.

 

 solisti de

I MADRIGALISTI AMBROSIANI

Elisa Franzetti, Barbara Zanichelli

Soprani

Salvo Vitale

Basso

Gianluca Capuano

Direttore al cembalo

Concerto realizzato in collaborazione con

Associazione Giacomo Carissimi - Archivio Gian Marco Manusardi

 

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