Bene bene siamo sopravvissuti, ma non certo tornati a casa
felici, anzi tutt'altro dopo avere visto l'ennesimo SCEMPIO che oggi si compie a
danno di un genere musical-teatrale immenso come la nostra opera lirica.
Non parlo certo da sprovveduto perchè vanto una carriera di spettatore di olte
mezzo secolo nel quale ho visto, di giornalista di documentatore, organizzatore
e - to! guarda caso - pure di regista. Regista in piazze più che minori e fatto
sempre con grande passione e non per magri o assenti compensi. So di cosa stiamo
parlando e l'ho sempre affrontato con studio e rispetto, ma oggi che si fa? Oggi
i novelli re del palcoscenico e dei cahet producono per la maggior parte delle
volte delle grandi GAGHET.
Il bello è che molte volte viene pure da ridere a leggere le loro presentazioni
che poi nell'opera non mettono assolutamente in pratica.
Forse perchè scrivono delle cose assolutamente a caso e poi le buttano sul palco
con l'accozzaglia di ideucce vecchie e sfruttatissime che credono sia una
novità.
Questo Don Carlo è un esempio importante, un ottimo antidoto per chi rischia di
innamorarsi dell'opera, dopo averlo visto smetterà di frequentare il teatro e
perdere così tempo che potrebbe passare meglio in pizzeria con gli amici.
1) LA VIOLENZA : ma perchè si deve sempre mettere in scena violenza, donne
stuprate, uomini percossi, occhi strappati, sangue a iosa su visi e su abiti, ma
PERCHE'?
2) LE TELECAMERE: ma basta, che noia vedere le finte telecamere in scena come
per un giornale radio, almeno si usassero veramente per riprendere e proiettare
i primi piani
3) LE SEDIE: un elemento che da quando Martone le usò nella Cavalleria alla
Scala imperversa in palcoscenico, giuro che se dovessi mai fare una altra regia,
se trovo una sedia in scena ci metto sopra dei chiodi o sego le gambe in modo
che nessuno possa sederi.
4) LA SEDIA A ROTELLE (la carrozzina): ma anche questa ormai è diventata
d'obbligo? Ditemelo, perchè così in Aida ci metto su Radames nella scena del
trionfo! In Flauto magico, il povero Sarastro esce in carrozzina, in Macbetto a
Salisburgo l'opera finisce con lui in cazzozzina e vivo, e qui abbiamo
l'invadente, onnipresente (ma dove?) e possente INQUISITORE che poverino deve
pure tirare il fiato con la macchinetta dell'ossigeno mentre lo portano a fare
una passeggiatina ... in carrozzina.
5) ADESIONE AL LIBRETTO: più che rispettata, le pistole saranno fatte di FERRO,
quindi il Marchese di Posa non sbaglia a dire "Dammi il ferro" ma in quale delle
cinque edizioni che cita il maestro Brusa c'è la morte in scena di Elisabetta
uccisa da Filippo II? Attendiamo deluciadazioni.
6) CONCLUDENDO
Pur avendo effettuato il fotoservizio MI RIFIUTO DI
PUBBLICARE foto che INNEGGIANO
SPUDORATAMENTE ALLA VIOLENZA. e quindi mi limito a rendere omaggio
alla parte musicale dove direttore, orchestra e cantanti NON POSSONO cambiare
nemmeno una nota della partitura mentre un regista si permette di stravolgere
completamente testo del libretto e drammaturgia.
E come disse qualcuno BUONANOTTE AL SECCHIO e a quello che c'è
dentro.
[mm ovvero Mario Mainino]
NOTE MUSICALI di Jacopo Brusa
Se mi chiedessero quale aggettivo associare al Don Carlo di Giuseppe Verdi
risponderei: ambiguo.
Per estensione, il dizionario ne indica quali sinonimi: doppio, enigmatico,
falso, infido, misterioso, subdolo. Ebbene, tutte queste accezioni si ritrovano
sia nel testo drammaturgico, sia nel testo musicale del Don Carlo.
Verdi, per questo Dramma tratto da Schiller in cui, come scrive in una lettera
del 1883 a Giulio Ricordi, "tutto è falso", utilizza vari espedienti compositivi
per sottolinearne le ambiguità.
Ad esempio, ci colpisce, fin dalle prime battute cantate dai Frati,
l'instabilità data dal corale che passa dalla tonalità minore a quella maggiore
più volte in breve tempo (cosa che si ripeterà moltissimo all'interno
dell'opera) e l'utilizzo dell'enarmonia, peculiare nella sua "doppiezza" data
dal dare diverso nome ad uno stesso suono.
Nelle prime cinque battute cantate dell'opera (nella versione del 1884), quindi,
abbiamo una sintesi di alcuni elementi che contribuiscono a mutuare l'ambiguità
tonale del Don Carlo e che porterà Verdi ad esplorare modulazioni ardite e non
usuali.
Le tinte scure dell'orchestrazione,
incentrata molto spesso sugli strumenti dal registro grave, contribuiscono a
sottolineare il clima subdolo e "malato" della corte di Filippo
II,
mentre la dilatazione della "forma" ne acuisce i repentini cambiamenti di stati
d'animo inevitabili in un testo che mette al centro la figura di Don
Carlos d'Asburgo, storicamente noto come "soggetto a brutali sbalzi d'umore" e
discendente di Giovanna di Castiglia, detta "Giovanna la Pazza"!
Credo che la "sfida" più grande nell'affrontare questo titolo verdiano, di cui
conosciamo almeno cinque versioni differenti, sia quella di dare un senso di
"unità", nonostante l'ambiguità e la complessità del testo e, in questo, la
versione del 1884 in quattro atti che eseguiremo ci aiuta, nell'indicarci quale
Alfa e Omega, Carlo V "il sommo imperatore".
NOTE DI REGIA di Andrea Bernard
DON CARLO E IL PESO DELLA LIBERTÀ
Pensieri di regia
"Tu vuoi andare nel mondo, e ci vai a mani vuote, promettendo agli uomini una
libertà che nella loro semplicità e innata sregolatezza non possono neanche
comprendere, che incute loro paura e terrore, giacché per l'uomo e per la
società umana nulla è mai stato più intollerabile della libertà!" F.Dostoevskij
Nel capitolo "Il Grande Inquisitore" de
I fratelli Karamazov
di Dostoevskij
l'Inquisitore critica Gesù
per aver dato all'umanità il dono della libertà, sostenendo che la maggior parte
delle persone non è in grado di gestirla. Afferma piuttosto che
l'umanità desidera la sicurezza e la guida autoritaria, giustificando
così il controllo e la necessità di avere qualcuno su cui riversare la propria
venerazione.
È in questa considerazione di Dostoevskij che ho trovato ispirazione per la
messa in scena dell'opera di Verdi.
Anche il Grande Inquisitore nel Don Carlo si presenta come l'autorità che
tutto sa e tutto controlla e ne è pienamente legittimato.
Verdi ci mostra la società dei pochi eletti e di come questa sia pienamente in
crisi – lei stessa soggiogata dal potere totalitario di uno - costantemente
sospesa tra i sentimenti più romantici e istintivi e il dovere razionale.
Lo stesso Filippo II è un re fantoccio, reso debole da colui a cui spetta
l'ultima parola, il Grande Inquisitore.
Carlo è cresciuto in questo ambiente oppresso e corrotto. Lui più di tutti
gli altri personaggi è schiacciato dall'incapacità di essere libero di pensare
ed agire. Il suo cuore gli dice una cosa, la legge e il dovere un'altra.
Carlo rappresenta il prodotto ideale del
potere: quell'essere
umano incompleto che non è in grado di diventare adulto. Costretto a
rimanere un eterno bambino, ha bisogno di qualcuno che lo rassicuri ma che
sappia anche punirlo se sbaglia.
Con il padre non riesce ad avere un dialogo e l'amata Elisabetta non può più
fare parte della sua vita. L'unica salvezza sono le Fiandre ma non come vero
credo politico – appartenente a Rodrigo, parte viva della resistenza – ma come
via di fuga. Carlo non è libero di agire e di essere padrone di se stesso, in
quanto parte della famiglia reale ha un ruolo da interpretare che gli sta molto
stretto.
In quest'opera però Carlo non è l'unico personaggio a sentirsi fuori luogo.
Anche gli altri sono perennemente sotto controllo e succubi del ruolo che
ricoprono. Nessuno – nemmeno il Re – può fuggire all'occhio dell'Inquisitore,
potere invisibile che non lascia via di fuga.
Proprio l'occhio dell'Inquisizione sarà il filo conduttore della mia
interpretazione.
Ho voluto ambientare la vicenda in una società
totalitaria d'ispirazione orwelliana, dove la libertà è severamente
limitata e controllata e una violenta propaganda costituisce l'unico mezzo di
espressione del potere.
Il Grande Inquisitore è il vero detentore di questo potere che sfrutta il
mistero e l'autorità divina per sottomettere la società – un'ombra sempre
presente che tutto ascolta, tutto sa e tutto vede.
Proprio la vista è il senso che più facilmente può essere messo alla prova e
gli occhi rappresentano il punto debole da colpire per chi troppo ha visto o
troppo ha mostrato. In scena si dipanano le storie di personaggi oppressi dalla
dominanza del controllo, rivelando così la loro incapacità nel gestire i veri
sentimenti che sono in netto contrasto con le aspettative imposte dalla
situazione esterna.
La scena rappresenta quindi l'aula del tribunale dell'Inquisizione dove tutti
sono sotto continuo giudizio e dove solo alcune fenditure lasciano intravedere
il popolo, una "massa" giudicante prodotto dei giochi di potere.