Oggi ho comperato
Ishtar dagli occhi colmi di Gabriella Galzio, edito da Moretti
& Vitali. Ero ansioso di sfogliarlo - da quando l’avevo conosciuta
nutrivo la curiosità di leggere le sue poesie - così appena preso
posto sulla carrozza del metrò per tornare a casa, l’ho aperto, il
poema dei morti, e mi sono ritrovato nella Necropoli, tra le palme
e la sabbia: smalti antichi dorati, pitture azzurre, ossa e magia,
versi rituali per l’accompagnamento nell’ultimo viaggio, l’estremo
passaggio tra l’una e l’altra vita, tra la materia e lo spirito, morte
e rinascita, oltretomba, oltrevita, ancestrali visioni di danze
ipnotiche alla luce delle antiche torce di canne e quel suono, rimasto
ad aleggiare nei secoli, sospeso nel vento leggero che soffia
instancabile in quella parte di deserto, ai margini dell’ultimo remoto
villaggio, con le memorie della civiltà nobile e dimenticata.
Cos’altro se non il bianco strema? Si chiede Gabriella in una
delle sue poesie al vasto regno dei ciechi.
Che cosa stanca di più di una luce abbacinante, implacabile che ci
sbianca dentro? Indifferenza, “male obscuro” che tutti i sentimenti
cancella e annulla, incapacità di “vedere col cuore" che hanno gli
ottusi (i “veri” ciechi). …
Non voglio essere salvata, non
cerco serenità, non cerco pace
nel bianco rantolo di luce cedo la tua santità…
È la ricerca di sé stessi nel vortice
più profondo di sé stessi, a costo di sfidare la maledizione che
perseguita i poeti, la dannazione di chi vuole viversi fino in fondo,
di chi vuole bere la vita amara o dolce, rosolio o veleno che sia o,
come è più probabile, medaglia a due facce: suadente musa, perfida
avvelenatrice di fiele. L’abbandono a una dolce aspra sessualità
femminile, vortice di emozioni, sensi e percezioni che scoppia come un
lampo abbagliante, lascia ciechi abbacinati, travolge e trascina, e al
quale lei non vuole né può opporsi.
(ndr Ishtar (Ester) nome della Dea dell'amore) |