Cultura e Spettacolo
a cura di Mario Mainino
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Opere liriche al Castello Sforzesco di Vigevano  luglio 2001 foto, presentazione e commenti sulla manifestazione



W  VERDI un solo grande amore!! La vita e i libretti di tutte le sue opere.

 

 

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Orta Festival 2006

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ORTA FESTIVAL
VII EDIZIONE 2006


17- 25 giugno 2006 - Lago d'Orta (Novara)
Sala E. Tallone e Basilica all'Isola di San Giulio
ORTA FESTIVAL VII EDIZIONE 2006
Anno XXIII
... antichi suoni e l'isola incantata..

REGIONE PIEMONTE
AMICI DELLA MUSICA "VITTORIO COCITO" NOVARA
DISTRETTO DEI LAGHI scrl
COMUNE DI ORTA SAN GIULIO
ASSOCIAZIONE TURISTICA PRO LOCO DI ORTA SAN GIULIO



GUIDA ALL'ASCOLTO
testi e realizzazione a cura di Elena Ceranini
Guida all’ascolto in .PDF

Sabato 17 Giugno 2006 - ore 21.15

"Passeggio di flauti tra Rinascimento e Barocco"

"L'autr'ier en mai, un matinet/m'esveillerent li oiselet/s'alai cuillir un saucelet/si en ai fait un flajolet" (l'altro ieri in maggio, un mattino, mi svegliarono gli uccellini, presi allora un ramoscello e ne feci un flagioletto).

Con questi versi il troviere Colin Muset nel XIII secolo parlava del flauto, sottolineando non solo il potere evocativo del suono di tale strumento, ma anche la caratteristica del suo timbro, per cui ricevette il nome di flauto dolce.

E flauti, dalle taglie e qualità svariate, li troviamo nelle esecuzioni musicali all'aperto, o come accompagnamento a banchetti e grandi cene aristocratiche, oppure come semplice svago individuale; strumenti, nella maggior parte dei casi, interscambiabili con altri nelle partiture dell'epoca. Al repertorio della musica da danza era naturalmente riservata una parte rilevante, tramite brani ormai elaborati per il piacere dell'orecchio più che per il movimento. Così ritroviamo la corrente, l'allemanda, l'intrada nelle musiche di Thomas Simpson, tratte dalla raccolta Opus Newer Paduaner, del 1617, ma anche una Padovana ed una Volta. Ed ancora la Tentalora, altro ballo sull'aria il cui testo recitava:

"O tiente alora. Tu mi dai troppo tormento. Dolce cara mia signora. Da me almen qualche contento, che alquanto mi ristora", che come avveniva, divenne fondamento di varie rielaborazioni. Come sfruttato divenne lo schema armonico della Gamba.

E sempre danze, in questo caso una pavana ed una gagliarda, in un binomio lento- veloce più volte sfruttato dai compositori, sono incaricate di evocare astrattamente la battaglia. I sentimenti dei brani del genere risalgono alla canzone La guerre di Clément Janequin, del 1528; qui l'autore evocava la battaglia di Marignano, con la quale i francesi, nel 1515, tolsero il Ducato di Milano agli Asburgo. I mezzi che accomunano le composizioni nel cui titolo compare la parola "battaglia", come in quella di Pierre Phalèse, in maggior o minor misura, sono: l'imitazione di suoni di trombe, di tintinnii di spade; melodie basate su accordi perfetti, note velocemente ribattute, bordoni.

E ancora al patrimonio popolare in voga nel Seicento, si rifà Marco Uccellini (musicista a Modena dal 1639 e poi maestro di cappella alla corte dei Farnese a Parma), con le sue numerosissime Arie variate, ispirate al repertorio dell'Italia del Nord.

Il Capriccio, pezzo di bravura di mano e d'intelletto, invece non si rifaceva necessariamente ad una tradizione di danza o temi popolari: per quanto riguarda Ruffo, pare, seguendo quanto scritto da lui medesimo in una lettera al conte Martinengo, che la scelta dei temi dei suoi Capricci fosse stata fatta "entro la gamma di motivi che il conte, la mattina, appena sveglio, cantava". Vincenzo Ruffo, il "fiammingo veronese", adepto di quell'Accademia Filarmonica di Verona (istituzione nata come combriccola di dotti sapienti "orditor di tranelli polifonici") i cui membri a Carnevale e al primo di Maggio presentavano ad un pubblico scelto le loro invenzioni musicali, diede alla luce, nel 1564, la raccolta

dei Capricci a tre voci. Vi inserì quindi il tema di partenza in una delle voci, mentre le voci "non portanti" eseguivano una serie di canoni, variazioni, passeggi per diminuzioni ed aumentazioni che tenevano conto delle regole riportate dai trattati: la Regula Rubertina di Silvestro Ganassi (1542) per le diminuzioni alla viola ed il Tratado de glosas, del 1553, di Diego Ortiz, "in cui si spiegava come variare un tema dato fino a spremerne tutte le più recondite possibilità". Ma potremmo anche aggiungervi, visti gli strumenti usati questa sera, anche il trattato del Ganassi sul come suonare il flauto dolce (o meglio un tipo): Opera Intitulata Fontegara, dove si insegnava a "sonare di flauto chon tutta l'arte opportuna a esso instrumento”, ma anche "il diminuire il quale sarà utile ad ogni instrumento di fiato et chorde: et ancora a chi si dileta di canto".


Domenica 18 Giugno  2006- ore 21.15

"In Taverna quando sumus".

Musiche e canti medioevali dei Clerici Vagantes

Nel 1803, durante la secolarizzazione dei monasteri in Bavaria, nell'Abbazia di Benediktbeurn (l'antica Bura Sancti Benedicti), viene riportato alla luce un manoscritto mai catalogato prima, contenente duecentoventotto testi poetici in latino, in medio alto tedesco e in lingua mista, probabilmente redatto nella terza decade del XIII secolo centonando poesie risalenti per lo più al secolo precedente. Le liriche vi erano state raggruppate da tre amanuensi in tre grandi sezioni: la prima (canti 1-55) racchiude canti a carattere satirico e morale; la seconda (56-186) comprende composizioni a tema amoroso in latino ed in tedesco antico, con l'inserzione di una mini-sezione satirico-moraleggiante; la terza (187-228) espone canti ispirati al vino, al gioco ed alla taverna.

II Codex Buranus (questo il nome con cui è conosciuto, ed i suoi testi sono i Carmina Burana) si inserisce in un contesto culturale di grande fermento: nelle città, soprattutto in Francia, fioriscono le scuole annesse alle cattedrali ed alle abbazie (nel Concilio Laterano III, nel 1179, si sancisce che ogni cattedrale deve organizzarne una), cui si affiancano le scuole laiche. Vi si insegnano le arti liberali del Trivio (grammatica, dialettica e retorica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, musica ed astronomia), propedeutiche all'apprendimento della Teologia. Il centro di studi più importante diviene la città di Parigi. Per la presenza di grandi figure, quali Abelardo, e per ascoltare le loro lezioni, vi giungono studenti da ogni parte dell'Europa. Le strade si affollano, tanto che Elinardo, abate di Froidmont, scrive: "Percorrono il mondo intero e studiano le arti liberali a Parigi, gli autori classici ad Orléans, la giurisprudenza a Bologna, la medicina a Salerno, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luogo".

Lo studente era, generalmente, di ceto benestante o nobiliare e, pertanto, poteva contare su redditi personali per mantenersi. Tuttavia, vista la convenienza, la maggior parte di loro era composta di chierici, che accettavano l'abito talare, la tonsura "e i pochi obblighi liturgici, come la lettura quotidiana del breviario, che la condizione clericale richiedeva. In cambio entravano a far parte di un gruppo sociale forte e protetto dall'autorità della Chiesa. Godevano infatti del privilegio del tribunale ecclesiastico, erano esentati dal pagamento di gran parte dei tributi al potere civile e usufruivano dei vantaggi che la dignità ecclesiastica comportava ... non dovevano sottostare inoltre a rigidi precetti sulla castità e potevano sposarsi". Una parte di essi finì invero per dedicarsi poco allo studio, creando quella frangia detta goliardica: studenti anticonformisti, indisciplinati e vagabondi, senza domicilio né risorse personali stabili, che vivevano in modo irregolare, vagando di università in università, senza iscriversi, al seguito del maestro preferito. All'interno dell'ordo clericalis tali chierici "non costituirono mai un movimento di opposizione alle forti strutture dell'epoca, se non con la disubbidienza ed il capovolgimento parodistico di quel sistema all'interno del quale in gran parte avrebbero voluto integrarsi. Contro di loro... tuonarono sinodi ecclesiastici, vescovi e papi". 

Sono "goliardi", termine che evoca sia Golia, il demonio nemico della Chiesa, sia "gola", ad indicare l'attitudine mangiona di questi studenti, ma anche l'antico francese "goinfres" (mangioni) o "forts en gueule" (sboccati). E come Golia fu apostrofato anche uno dei modelli cui si collegano i goliardi, per la sua opposizione al rigorismo monastico: Abelardo, nel concilio di Sens nel 1140, quando fu tacciato di eresia da San Bernardo. Cantano di gioco, taverne e gozzoviglie, affermano che il loro "ordine vieta assolutamente di celebrare il mattutino, chi si alza presto non è sano di mente", ma finiscono, usando i parametri della parodia, per creare un mondo alla rovescia nel quale Decius (il dado) è un dio degno di essere celebrato, gli uccelli volano senza piume ed i bifolchi diventano cavalieri (carmen 3); un mondo dal quale traspare il senso della satira degli accadimenti a loro contemporanei: soprattutto l'avidità della Curia, l'ipocrisia della condotta di vita dei prelati (Giovanni di Salisbury diceva: "non era Chiesa di Dio, ma un mercato e una spelonca di ladri"). Per questo accanto ai versi moraleggianti (contro la falsa vita mondana, che porta le anime all'inferno) del carmen 24: "Iste mundus furibundus falsa prestat gaudia" e la "Laus mundana, vita vana vera tollit premia/ nam impellit et submergit animas in tartara", troviamo versi come quelli dei carmina potatoria, il mondo della taverna dove risiede la “fraus eterna” che “sempre est in ludo;/ hanc qui amat,/ saepe clamat/sedens dorso nudo" (c.195). La taverna è il luogo dove le differenze sociali si annullano: tutti bevono dal povero al malato, dal cavaliere al chierico, dal lesto al pigro; è il posto dove si gioca, "quidam ludunt, quidam bibunt", dove ogni occasione è buona per godere del vino ed in fondo che importa della morte se si può giocare e vincere da bere: "ibi nullus timet mortem/sed pro Baccho mittunt sortem" (il tutto descritto nel c.196 usando la tecnica della ripetizione ossessiva della parola bibit, racchiuso nella forma del catalogo, che da sempre suscita ilarità nell'ascolatore). Non sarebbe giusto bollare coloro che hanno prodotto tali liriche solo come incolti e dissoluti, una schiera di squattrinati e niente più; la cultura goliardica fu il prodotto di un gruppo ampio, che dai maestri arrivava agli studenti, ognuno con una propria capacità di espressione. Se si leggono i testi dei Carmina Burana lo si comprende a pieno: sono nella stragrande maggioranza liriche colte. Vi troviamo testi di Pietro di Blois, dell'Archipoeta di Colonia (al servizio di Rainaldo di Dassel, cancelliere di Federico I il Barbarossa), di Ugo di Orléans detto il Primate (retore apprezzato), del poeta Walther von der Vogelweide, destinati ad un pubblico che poteva comprendere i vari sottintesi culturali di satira e di parodia in esse contenuti e che poteva apprezzare gli echi della lirica trobadorica in poesie narranti del dolce tempo di primavera, di quando fioriscono gli alberi e di quando sboccia l'amore fra i lillà (c.85) (anche se il concetto sotteso non è più quello di fin'amor).


Martedì 20 Giugno 2006 - ore 21.15

"Chiamata a Nuovi Amori", compositrici e compositori tra Seicento e Settecento

"Tre cose principalmente si convengon sapere da chi professa di ben cantar con affetto solo. Ciò sono lo affetto, la varietà di quello e la sprezzatura. Lo affetto in chi canta altro non è che per forza di diverse note, e di vari accenti co'l temperamento del piano, e del forte una espressione delle parole, e del concetto, che si prendono à cantare atta à muovere affetto in chi ascolta. La varietà nell'affetto, è quel tra passo, che si fa da uno affetto in un altro co'medesimi mezzi, secondo che le parole, e 'l concetto guidano il cantante successivamente. E questa è da osservarsi minutamente acciocché con la medesima veste (per così dire) uno non togliesse à rappresentare lo sposo, e'l vedovo. La sprezzatura è quella leggiadria la quale si da al canto co'l trascorso di più crome, e semicrome sopra diverse corde co'l quale fatto à tempo, togliendosi al canto una certa terminata angustia, e secchezza, si rende piacevole, licenzioso, e arioso, si come nel parlar comune la eloquenza, e la fecondia rende agevoli, e dolci le cose di cui si favella. Nella quale eloquenza alle figure, e à i colori rettorici assomiglierei, i passaggi, i trilli, e gli altri simili ornamenti, che sparsamente in ogni affetto si possono tal'ora introdurre. Conosciutesi queste cose, crederò con l'osservanza di questi miei componimenti, che chi havrà disposizione al cantare, potrà per avventura sortir quel fine, che si desidera nel canto specialmente, che è il dilettare". Così scriveva Giulio Caccini nella prefazione alle "Nuove musiche e nuova maniera di scriverle" edite nel 1614. Il coinvolgimento psicologico, quindi gli affetti, e non solo il ricorrere ad effetti acustici di imitazione per descrivere entrò a far parte della concezione compositiva del Seicento, unitamente all'idea di creare musiche per voce sola con un accompagnamento strumentale accordale, ovvero un basso continuo da realizzarsi al momento dell'esecuzione. Giulio Caccini ne fu uno degli apostoli e Francesca Caccini, sua figlia, ne continuò e sviluppò l'idea.

Ella, nata nel 1587, fu un'ottima cantante e non solo: "udii a Firenze la signora ... molto ben cantare e suonare di liuto chitaronato et clavicembalo", scrisse Monteverdi al Cardinale Ferdinando Gonzaga, nel 1610. Sapeva anche suonare l'arpa e comporre versi, tanto che si pensa che diversi testi di sue composizioni possano a lei essere ascritti. Testimonianza della sua arte vocale è il Primo libro delle musiche (dal quale è tratto il brano Dolce Maria), pubblicato nel 1618, lo stesso anno della morte del padre e recante la dedica al Cardinale Carlo de' Medici. In esso si raccolgono diciannove arie sacre per voce sola e tredici profane nelle quali si dipana la sua maestria nell'utilizzare l'ornamentazione, il trillo, le frasi di lunghezza irregolare, le dissonanze senza preparazione, la variazione melodica e ritmica e la capacità di ritrarre con la parole le emozioni.

E grande capacità compositiva ebbero altre figlie d'arte: Vittoria Aleotti, il cui padre era un famoso architetto ferrarese, e Barbara Strozzi, figlia adottiva del poeta Giulio, esempi di quel mondo artistico femminile che tra fine Cinquecento e primo Seicento trovò le sue muse nelle pittrici Sofonisba Anguisola, Fede Galizia e Artemisia Gentileschi.

Barbara Strozzi, la "gentilissima, e virtuosissima donzella" e la "virtuosissima cantatrice", come la definisce Nicolò Fontei nella prefazione delle sue Bizzarrie poetiche (1635), crebbe nel mondo colto dell'Accademia degli Incogniti a Venezia, della quale era membro suo padre ed ebbe come maestro anche Francesco Cavalli, come apprendiamo dalla dedica a Ferdinando III d'Austria e Leonora II dell'op.II (1651): "Inanimita dà molti professori de questa bell'arte, e particolarmente dal Sig. Francesco Cavalli, uno de' più celebri di questo secolo, già dalla mia fanciullezza mio cortese precettore". Nel 1637 Giulio Strozzi fondò l'Accademia degli Unisoni, probabilmente anche per promuovere l'arte della figlia Barbara. Di lei ci rimangono alcune raccolte di musica a stampa "che, come donna, troppo arditamente mando in luce" - scrisse nella prefazione all'op.I - libri di arie che presentano un grado di virtuosismo molto accentuato, melismi elaborati ed un'estensione verso l'acuto.

Monache furono Vittoria Aleotti e Isabella Leonarda. La prima fu allevata nel Monastero di S. Vito in Ferrara, monache la cui "perfettione et Eccellenza delle quali nella Musica trapassa... tutti gli concerti più famosi, che dal sesso feminile si siano sentiti da gran tempo in qua", come il padre ricorda nella prefazione all'edizione dei madrigali della figlia Vittoria (1593). La seconda visse a Novara, tra il 1620 ed il 1704, entrando nel collegio di Sant'Orsola all'età di sedici anni. Di lei rimangono molte composizioni strumentali ed musica vocale sacra. Ma entrambe avrebbero condiviso quanto scritto da Frescobaldi nel 1635: "La Musica Eminentissimo Signore è una cosa così nobile, così necessaria e importante attione, per i felici suoi parti che produce, che parmi ben dir si possa che senza questo mezzo imperfetta potrebbe dirsi l'immensità del mondo".

Mercoledì 21 Giugno 2006- ore 21.15

"Capolavori del Barocco Europeo"

Nel volgere fra Seicento e Settecento il flauto traverso fu sottoposto ad alcuni perfezionamenti, quali il non essere più costruito con una canna unica, ma in due o più pezzi (il che permetteva di regolare l'intonazione); nonché una cameratura atta a rendere il suono più melodioso. Lo scopo fu quello di permettere agli strumenti come il flauto e l'oboe di poter gareggiare con la voce nel cogliere le varie sfumature espressive. Così, verso il 1710, il flauto più diffuso era il tipo con i fori non più posti su di un unico pezzo di canna, ma su due. Fu per tale strumento che Federico II di Prussia compose e fu un flauto di questo tipo che egli suonava quando organizzava concerti per pochi invitati. Joachim Johann Quantz, che dapprima studiò oboe e che si guadagnava la stipendio suonando nella cappella di Augusto II di Sassonia (Re di Polonia tra l'altro), nel 1719 intraprese l'apprendimento del flauto traverso con il francese Buffardin ed in breve ne divenne un virtuoso. Federico (non ancora re) lo scelse quale suo insegnante in materia e, appena fu possibile, alla sua salita al trono, lo prese a servizio, presso la corte di Potsdam. Le composizioni di Quantz furono scritte per tale contesto e di lui rimase celebre anche un trattato approntato sul come suonare il flauto traverso, anche se ad esso dedicò solo una parte, dato che era per lui fondamentale "formare un abile ed intelligente musicista e non un meccanico flautista".

Nel 1727 Quantz conobbe, a Londra, Georg Friedrich Haendel. Sempre nella capitale inglese viveva e lavorava anche Jean-Baptiste Loillet, che poi naturalizzò il nome in quello di John. Qui egli fu flautista ed oboista dell'orchestra del teatro Drury Lane e poi oboista nell'orchestra del Queen's Theatre (il teatro dell'opera). Secondo l'usanza inglese organizzava concerti in casa propria e non è da escludere che desse lezioni ai vari membri dell'aristocrazia e borghesia. Il gusto per il suonare il flauto traverso (chiamato nelle edizioni a stampa German Flute) cominciò a prendere piede in Inghilterra in questo periodo e vi sono anche pubblicazioni, nella prima metà del XVIII secolo, che riportano parti vocali da eseguirsi, all'occorrenza, anche con tale strumento. La scrittura richiesta nei suoi trii, di conseguenza, in omaggio agli esecutori destinatari, seguiva i canoni di piacevolezza melodica dei temi e la parte del basso era subordinata a quella degli altri due strumenti. L'op. 2 fu dedicata "To the most Noble his Grace John Duke of Rutland". Quantz aveva viaggiato e studiato anche in Italia, come Haendel, ed aveva conosciuto lo stile di Vivaldi. Le opere composte da quest'ultimo erano per lo più concepite per le allieve dell'Ospedale della Pietà dove egli insegnava. Una delle grandi attrattive dell'epoca, in campo musicale, erano le esibizioni delle "ospealiere", le fanciulle che vivevano negli ospedali di Venezia (dei Mendicanti, della Pietà, degli Incurabili e dei SS. Pietro e Paolo), le scuole dove l'insegnamento della musica aveva un ruolo preminente. Nel 1743, Jean-Jacques Rousseau nelle Confessioni scriveva: "Una musica che mi sembra assolutamente migliore di quella operistica è quella che si esegue nelle scuole. Tutte le domeniche, nella chiesa di ciascuna delle

quattro scuole, vengono eseguiti durante i vespri dei motetti a grande coro e a grande orchestra composti e diretti dai migliori maestri d'Italia, eseguiti, in tribune nascoste, esclusivamente da ragazze, la più vecchia delle quali non ha vent'anni... Quello che mi dava fastidio erano le grate, che non lasciavano passare i suoni, e impedivano la vista di quegli angeli di bellezza di cui tali suoni erano ben degni". Un giorno il signor Le Blond gli chiede se vuole pranzare con loro; Rousseau non aspetta altro, "il signor Le Bond mi presenta una dopo l'altra quelle cantanti celebri di cui non conoscevo che il nome e la voce. "Venite Sofia ..." era orribile. "Venite Cattina..." era guercia. "Venite Bettina ..." la varicella l'aveva sfigurata. Quasi nessuna era priva di qualche difetto. Il carnefice rideva della mia crudele sorpresa". Tuttavia la gaiezza d'animo fece passare in second'ordine l'aspetto ed alla fine "ero innamorato di quasi tutte quelle bruttezze".

Il termine Sonata nella seconda parte del Seicento indicava una composizione strumentale comprendente una serie di danze se "da camera" e quattro o cinque movimenti, in alternanza lenti e veloci, se "da chiesa". Quest'ultimo modello diventa in quattro (lento-veloce-lento-veloce) con Corelli, presentando negli ultimi due movimenti dei ritmi di danza. Elementi del genere si ritrovano nelle sonate del Settecento, dove nell'alternanza di quattro, ma anche tre tempi, si trovano danze (siciliano), parti in stile fugato, bassi scorrevoli che ormai, come in Haendel, vanificano la suddivisone in "da camera" e "da chiesa". Anzi il termine usato da Vivaldi: "Concerto", all'epoca attribuito ai concerti grossi e a quelli solistici (dove il "concertino" di pochi strumenti, contrapposto al "grosso", è ridotto praticamente ad uno strumento) si attribuisce ad una sonata nella quale i tre strumenti "concertano", nel senso etimologico del termine (gareggiano- suonano insieme).

Giovedì 22 Giugno 2006 - ore 21.15

"Si dolce è 'l tormento". Arie e Cantate nel Seicento

Nel panorama musicale del primo Seicento si potevano incontrare termini come ricercare, sonata, toccata o canzona ad indicare composizioni prettamente strumentali. Canzona era generalmente un brano costituito da diverse sezioni, che talvolta potevano anche giungere alle dieci parti, contrastanti nel carattere, nel tempo e nella struttura. Nella canzona variata, spesso usata da Frescobaldi, a differenza di questa, le varie sezioni erano basate su di un solo tema, spesso con un nome di donna. Canzoni per più strumenti ricevettero spesso il titolo anche di Sinfonia e di Sonata (ovvero canzon da sonar). Una delle prime raccolte specificatamente recante il termine sonata sono le due composte da Dario Castello e pubblicate nel 1621 e 1629. Nel secondo libro compare la "Sonata Prima a Sopran Solo", per strumento solista e basso continuo, ricca di piccole e veloci volatine, articolata in una successione di tempi veloce-lento-veloce-lento (schema che rimarrà poi nell'evoluzione della sonata) barocca.

Il chitarrone e la tiorba apparvero nella seconda metà del Cinquecento e possiamo definirli degli ariciliuti, dei liuti con un secondo lungo manico. La prima testimonianza che possediamo di un chitarrone è in un ritratto di Lady Mary Sydney (defunta nel 1586), mentre, pare, la tiorba fu un po' più tarda. Nel 1676 Thomas Mace definiva quest'ultima come "uno strumento di tanto grande eccellenza e valore, e di così buon uso, che a dispetto della volubilità e della novità, è tuttora adoperato nelle migliori esecuzioni di musica". Nel 1622 Bellerofonte Castaldi, modenese, virtuoso di tiorba, poeta, compositore dalla vita avventurosa (ultimo di sette fratelli dai nomi stravaganti, quali Oromedonte o Sesostro), diede alle stampe la raccolta "Capricci a due stromenti", destinata ad essere apprezzata dai conoscitori dello strumento, ma anche da letterati, in virtù dei testi posti ad introduzione in risposta al sonetto dedicatogli da Fulvio Testi, nonché per le incisioni grafiche. Ed all'altro grande liuto è dedicata la "Intavolatura di Chitarrone Libro Quarto", edita a Roma nel 1640, dalla quale è tratta la Toccata di Giovanni Girolamo Kapsberger. Figlio di un colonnello austriaco, nato a Venezia, ma vissuto a lungo a Roma, divenne celebre come esecutore al liuto ed entrò a far parte di circoli letterari, dell'Accademia degl'Imperfetti e dell'Accademia degli Umoristi e fu amico di poeti quali Giulio Rospigliosi e Giovanni Ciampoli. Le sue composizioni per liuto e per chitarrone furono originali ed apprezzate, soprattutto per le sue invenzioni ritmiche e melodiche.

Al volgere del Cinquecento e principiare del secolo successivo, Claudio Monteverdi affermava la necessità di privilegiare il significato delle parole sulla musica, di dare interpretazione al testo, alle emozioni, anche attraverso un maggiore uso della dissonanza, della declamazione. La concezione si inserisce nel panorama di sperimentazione vocale, teorica e pratica, che si concretizzò nella diffusione della cosiddetta monodia (o recitar cantando): una o due voci con accompagnamento

di basso continuo. Fonti dei due brani eseguiti sono rispettivamente il "Quarto scherzo delle ariose vaghezze ...", edito a Venia nel 1624, e gli "Scherzi musicali cioè arie et madrigali in stil recitativo con una ciaccona ...", editi a Venezia nel 1632. E del medesimo intento sono le arie concepite da Benedetto Ferrari, nei suoi tre libri di musiche a voce sola editi sempre a Venia nel 1633, 37 e 41: sensibilità per il testo, per mettere in evidenza le parole ed i sentimenti attraverso raffinati artifizi tecnici, nonché uso della dissonanza, tensioni armoniche, bassi ostinati e quant'altro. E su di un basso ostinato (o meglio una successione di dati gradi armonici a creare uno schema che si ripropone) si basa il brano tratto dal terzo libro, Amanti, io vi so dire: un basso di ciaccona. L'uso dell'ostinato lo si ritrova anche nel brano di Giovanni Felice Sances, Usurpator tiranno: questa volta un basso di passacaglia. Ma il termine usato da tale compositore è differente: impiega il termine cantata. La connotazione che la parola evoca è quella di una maggiore articolazione rispetto alla semplice aria, ma al principio del XVII secolo tale differenza non era categorica, vi era una interscambiabilità semantica. Tuttavia Sances, e siamo nel 1633, quando pubblica i suoi due libri di "Cantade", oltre alla forma classica dell'aria strofica dell'aria vi impiega una ciaccona (Lacrimosa Beltà) ed una passacaglia (Usurpator), caratterizzate dall'intervento di sezioni in arioso. È l'indicatore della via sulla quale si immetterà l'aria e di conseguenza la cantata.

Con Alessandro Scarlatti la forma della cantata raggiunge quella che il termine evoca nella nostra mente: recitativo - aria- recitativo - aria. Sezioni ben determinate con un recitativo che descrive un'azione ed un'aria che descrive un sentimento

e che ora si articola in una forma tripartita con da capo: ABA'e, naturalmente, un'aria è in tempo lento, un'altra, per contrasto, in allegro.

Venerdì 23 giugno 2006 - ore 21.15

"Da Dufay a Michele Varotto, canonico all'isola di San Giulio". La grande polifonia e la musica del territorio novarese

II XV secolo fu il periodo fecondo che vide la diffusione della polifonia fiamminga, legata anche alla allora neonata costumanza di istituire cantorie aggregate alle cappelle musicali dei principi laici (come dei Duchi di Borgogna Filippo il Buono e Carlo il Temerario), nelle quali i coristi, musicisti di professione, avevano tale maestria che al Guicciardini apparivano "i veri maestri della musica e quelli che l'hanno ristaurata e ridotta a perfezione". Fu un periodo storico segnato da grandissimi compositori, nel quale si creò un vasto repertorio di enorme bellezza caduto per lo più nel silenzio, oppure oggigiorno frequentato da pochi appassionati studiosi, attirati, per lo più, dalla sapienza contrappuntistica e dai misteri che esso racchiude. Ma non solo dalla carta arriva la riscoperta di questo mondo, non solo dalla ricerca e dal compiacimento mentale, ma principalmente dal suono, dal tentativo di ricreare un mondo perduto costituito da Cappelle stabili in cui i cantori erano professionisti educati, fin dalla tenera età, con l'esercizio quotidiano, alla sfericità del sapere, vivendo appunto in una dimensione di suono molto differente dalla nostra.

Quale centro fondamentale poniamo, oltre a Guillaume Dufay (nato verso il 1400, e pertanto primigenio ispiratore) la figura di Ockeghem e quella del suo grande allievo: Josquin Desprez. Il primo, nato nel 1425, fu al servizio nella cantoria di Anversa, delle corti parigine di Carlo VII, Luigi IX e Carlo VIII e fu tesoriere dell'Abbazia di St. Martin de Tours. Il secondo, chiamato "il principe della musica", nato intorno al 1440, lavorò al servizio del Duca Galeazzo Maria Sforza, di Ascanio Sforza, del Papa a Roma, del Duca Ercole d'Este a Ferrara e poi in Francia. Così dal Requiem del Maestro, percorriamo una strada che giunge, verso la fine, alla Deploration scritta per la sua morte dall'Allievo, in cui il testo di J.Molinet, "Nymphes des bois", è intessuto sul Requiem gregoriano, reso ancor più languido e struggente da un artificio "canonico" che impone di cantarlo un semitono più in basso, un esempio lampante di retorica musicale.

Fra i due poli alcune sezioni di messe di Josquin Desprez, scritte secondo procedure tipiche del contrappunto fiammingo: la Missa "Ave Maris stella" basata sull'antico inno nel Primo Tono, la "Dung aultre amer" ispirata dalla chanson di Ockeghem e in ultimo un Kyrie dalla messa il cui soggetto è "cavato" dal motto "Hercules Dux Ferrariae". Ovvero "cavato" isolando le vocali, per cui si ottiene la sequenza: E- U-E-U-E-A-I-E da cui è possibile ricavare le seguenti note: RE-UT-RE-UT-RE- FA-MI-RE. Questo tema, in solmisazione, può essere letto in varie posizioni e Josquin, per il Kyrie, usa le seguenti:

esacordo naturale - esacordo duro - esacordo naturale  (RE UT RE UT RE FA MI RE)

Dal mondo polifonico fiammingo arriviamo a Michele Varotto, compositore nato a Novara tra il 1520 e il 1525 circa che fu, intorno al 1560, canonico sull'isola di San Giulio. "Cantor" di notevole prestigio dal 1545, divenne il primo maestro di cappella del Duomo della sua città il 7 agosto 1564 e si occupò, oltre che della composizione, anche dell'istruzione nel canto di "cinque putti vestiti di rosso" (in ottemperanza del lascito del canonico Melchiorre Langhi), realtà tuttora esistente nella cattedrale novarese. Il suo stile fu ammirato non solo in Italia, ma anche oltralpe, come testimoniano le diverse stampe di musica, le cui copie superstiti sono ora sparse negli archivi e biblioteche di mezza Europa. Morì a Novara il 16 febbraio del 1599.

Sabato 24 Giugno 2006 - ore 21.15

"Trobar leu": musiche e canti di giullari, trovatori e pellegrini

Durante il Medioevo, e oltre, la via Francigena fu l'asse portante del sistema viario sfruttato dal pellegrino: da Roma sino a Pavia, dove curvava verso la Francia per immettersi sulla via che conduceva a Santiago di Compostela, in Galizia, e da dove si proseguiva verso il nord Europa.

Lungo tali vie molteplici erano le istanze sonore che risuonavano. Chi, percorrendo la Francigena, fosse giunto a Siena, avrebbe potuto assistere, nel 1267, alla nascita della confraternita in onore della Beata Vergine e del santo Domenico, ed ospitata nella "casa dei frati Domenicani ... a Campo Regio... per la devozione delle anime e l'utilità e i moltissimi benefici che crediamo, con l'aiuto di Dio, ne possano derivare" (si recitava negli statuti). Così ogni sera, "all'ora di Compieta o poco prima, secondo la stagione", si sarebbero potute ascoltare le melodie provenire dalla chiesa dove si riuniva un gruppo di laici allo scopo di cantare le laude. Nobile iniziativa, lodata il 2 Settembre 1273, dal Vescovo di Siena Bernardo Gallerani, nella lettera d'indulgenza: "poiché dunque, figli diletti, voi continuate ogni giorno a cantare le laude della beata Maria madre di Cristo e sempre Vergine e del beato Domenico ... e dell'intera curia celeste, volendo anche noi essere partecipi di così importanti laude... allo scopo di accrescere la devozione dei fedeli che lodano la Madre di Dio... per ogni giorno in cui, secondo lo statuto e la Vostra consuetudine, vi riunite concordemente insieme a innalzare le laude a Dio, concediamo cento giorni di indulgenza". Da tale città si sarebbe poi diffusa l'usanza di tali confraternite e di tali canti. Così la congregazione laica dei laudesi (sia uomini che donne) di Santa Maria delle Laude in Cortona, avrebbe commissionato, presumibilmente sul finire del Duecento, la compilazione di uno dei pochi libri a noi giunti che raccolgono tali liriche e relativa loro melodia, annotata con notazione quadrata. Sia laudato San Francesco, Magdalena degna da laudare e Troppo perde 'l tempo ki ben non t'ama, sono esempi tratti da tale silloge; forse non i più raffinati da un punto di vista metrico e poetico, ma ben esemplificanti la struttura diffusa all'epoca. La fondamentale forma poetica del laudario cortonese era la ballata e soprattutto la ballata "zagialesca" con ritornello xx e schema stanza aaax, bbbx etc., che aveva una sua ascendenza nella lassa monorima ed in alcuni componimenti in versi accentuativi latini. Ma grande somiglianza, o meglio identità, aveva questo schema con quello assai diffuso nella raccolta di poesie e canti detta Cantigas de Santa Maria, ad uso di Alfonso X el Sabio re di Castiglia e Léon (1252-1284).

E ballate, nel senso di vere danze, sono i brani tratti dal Llibre Vermell: Stella Splendens, Polorum Regina e Los sets Gots. Il manoscritto risale al Trecento ed apparteneva all'Abbazia di Montserrat, in Catalogna, meta di pellegrinaggio per la presenza della Vergine Nera (la Moreneta). Il viaggiatore che qui giungeva vi trascorreva del tempo non solo in preghiera e pertanto i monaci crearono la raccolta musicale "per assecondare il desiderio dei pellegrini, che si erano sobbarcata una lunga ed impervia ascesa, di trascorrere in letizia il tempo di attesa dell'apertura del santuario, ma anche di incanalare quell'esultanza in un repertorio di canti che avrebbero contribuito all'elevazione dello spirito senza profanare la sacralità del luogo". Quindi brani cantati, ma anche danzati ed i titoli citati precedentemente recano indicazioni che ci fanno pensare ad una esecuzione a "ballo in tondo", ovvero: ad trepudium rotundum il primo, a ball redon il secondo ed il terzo.

E sempre a danze, questa volta strumentali, italiane e di argomento profano, ci portano il Lamento di Tristano e la Chançoneta Tedescha; mentre danze vocali in area trobadorica sono Kalenda Maya e A l'entrada del tens clar. Il Lamento trova la sua controdanza ne La Rotta, ovvero nel "rompere" il movimento cui segue nel ritmo o nella velocità. La Kalenda Maya fu scritta da Raimbaut de Vaqueiras, trovatore in servizio presso le corti del nord Italia; l'occasione della composizione ricorda il suo amore per donna Beatrice, sorella del marchese Bonifazio I del Monferrato. Il componimento venne intonato sulla melodia di una preesistente estampida, ovvero una danza, udita a corte eseguita da due suonatori di viella provenienti da Parigi.

Domenica 25 Giugno 2006 - ore 21.15

"Il quartetto d'archi a fine Settecento: Haydn e Mozart"

Fra il Dicembre 1769 ed il Marzo 1773 Wolfgang e suo padre Leopold intrapresero tre viaggi in Italia. Il vero tour di "promozione" fu il primo della serie, con i suoi quindici mesi di girovagare per le principali città della penisola italiana, a raccogliere consensi presso l'aristocrazia (con qualche eccezione, come il principe Thurm and Taxis) e presso gli eminenti maestri del mondo musicale italiano: fu una serie di "è un miracolo musicale, uno di quei prodigi che ogni tanto la Natura fa nascere" e di "essi non han temuto di troppo dire, affermando, che lor parea nato questo Giovine a confondere i più esperti nell'arte" (così La Gazzetta di Mantova il 19 Gennaio 1770). Gli altri viaggi furono, in confronto, brevi. Con il terzo, Mozart scendeva in Italia nell'Ottobre del 1772, diretto a Milano per mettere in scena l'opera Lucio Silla. Ma nel frattempo si dedicò anche ad altre composizioni: già sulla via dell'andata, fermo nella "triste Bolzano", compose per passatempo un quartetto, il primo dei sei KV 155-160. I quartetti di Mozart, in questo periodo, rivestono importanza ai fini dello sviluppo del genere: tutti sono in tre movimenti e costituiscono un ciclo organizzato, se si fa riferimento alla tonalità, distanti una quinta discendente l'una dall'altra: re, sol, do, fa, si e mi bemolle maggiore. Al predominio dei due violini si sostituisce il ruolo guida del primo e si evidenzia una maggiore attenzione alla condotta contrappuntistica delle parti: per esempio, nell'andante del KV 157 i temi passano da uno strumento all'altro; oppure l'estensione delle forme, come nel terzo movimento di tale quartetto, dove il terzo ritornello si collega al primo, dando così vita ad un rondò-sonata con uno schema ABACABA. L'autorevole Historisch Biographisches Lexicon der Tonkünstler, pubblicato nel 1790, riportava che "le orecchie inesperte fanno fatica a seguire i suoi lavori. Anche le più esercitate devono ascoltarli più volte". A quanto pare, dopo i Quartetti Haydn e le opere su libretto di Da Ponte, Mozart cominciò ad essere considerato un compositore difficile o radicale. I sei quartetti dedicati ad Haydn videro la luce fra il 1782 ed il 1786; il primo di essi, KV 387, nel dicembre dell'82. La strada ultimamente aperta da Haydn conduceva ad una maggiore sviluppo tematico delle quattro parti indipendenti ed è in questa via che si pone Mozart. Questo conduce all'essere tacciato di scrivere difficile, così che un critico nel 1787 si domandava: "Peccato che Mozart, per diventare un creatore di cose nuove, pretenda troppo dalla sua tecnica, abile e veramente bella, poco concedendo al sentimento e al cuore. I suoi nuovi quartetti, dedicati a Haydn, hanno forse troppo condimento e quel palato può gustarne tanto a lungo?" e a Vienna il principe Krazalkovicz "nell'udire questi quartetti, accusò gli esecutori di suonare in modo sbagliato e, quando essi gli provarono il contrario, si infuriò talmente che strappò le parti".

Dedicati al Conte Apponyi, nel 1793 Franz Joseph Haydn scrisse sei quartetti in vista del suo futuro secondo soggiorno a Londra, città assai feconda di sale da concerto pubbliche; essi presero il numero di op.71 e 74 (la differente numerazione è dovuta al fatto che tre quartetti furono pubblicati da Pleyel e tre da Corrio Dussek).

Nel 1794 due di questi quartetti vennero eseguiti nella celebre serie di concerti organizzata da Salomon. In essi il compositore considerò il desiderio del pubblico, per cui mise in luce l'abilità tecnica degli esecutori incanalandola in schemi ben lineari. Nell'op.74 n.3 è inconsueta la scelta della tonalità, sol minore, e la presenza di una breve introduzione alla presentazione del primo tema del movimento d'apertura in forma-sonata (ovvero, in sintesi, una prima parte con due temi e una seconda in cui essi si riutilizzano, si rielaborano, sino alla loro ricapitolazione), schema che ritorna anche nel tempo conclusivo del quartetto; e nel secondo movimento, Lento assai, la tonalità in Mi maggiore crea una grande contrasto con quanto precedente. Unica della sua serie, la composizione ricevette il nome di "Il cavaliere", forse per la presenza delle crome ribattute, dei contrasti forte-piano, o dei passaggi in sedicesimi del suo finale. Nel Giugno del 1795 Haydn lasciò Londra alla volta di Vienna, dove si stabilì. All'epoca stava divenendo di moda ordinare serie di quartetti per archi; questi "rimanevano di proprietà esclusiva di chi li commissionava per un certo periodo di tempo (di solito un paio d'anni), dopo di che il compositore era libero di pubblicarli o di raccogliere qualsiasi compenso la musica fosse in grado di procurargli". Un accordo del genere intercorse fra Haydn Conte Erdödy per l'op.76. Scriveva il 14 Giugno 1797 il diplomatico svedese Frederik Samuel Silverstolpe: "Alcuni giorni fa sono stato nuovamente a trovare Haydn, che vive vicino a me, da quando ha lasciato la sua abituale residenza invernale e primaverile in un sobborgo, spostandosi di un quarto di miglio. In questa occasione ha suonato per me al pianoforte i quartetti per violino che un certo Conte Erdödi gli ha commissionato e che possono essere pubblicato solo fra qualche anno. Sono più che magistrali e pieni di nuove idee. Mentre suonava, mi ha fatto sedere accanto a sé mostrandomi come divideva le varie parti della partitura". I nuovi quartetti op.76 furono eseguiti in Settembre a Eisenstadt in occasione della visita del viceré di Ungheria. In virtù dell'accordo, furono pubblicati a Londra da Longmann & Broderip solo nel 1799 e a Vienna da Artaria; in quest'ultima edizione i quartetti recano la dedica al Conte Joseph Erdödy. Il n.2 della serie, in re min., utilizza nel primo movimento la forma-sonata Il secondo movimento, in re maggiore, incomincia con un tema di quindici battute affidato al primo violino e accompagnato alternativamente da pizzicato e arco; la sua forma è quella classica tripartita ABA. Il terzo movimento è un minuetto in re magg. E min. cui segue il Trio ed infine il Finale, in minore, che non rinuncia al perenne antagonismo col maggiore con cui termina. Il Quartetto, per il frequente ricorso in tutti i movimenti ad un motivo di quinta, venne denominato “delle quinte".



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