Opera e Balletto Martedì 5 Novembre 2002, ore 20.30
Mercoledì 6 Novembre 2002, ore 20.30

LES CONTES D'HOFFMANN
di Jacques Offenbach originale francese di J. Barbier e Michel Carré
OPERA FANTASTICA IN 4 ATTI E 5 QUADRI
direttore Francesco Maria Colombo
regia, scene e costumi Denis Krief
coro As.Li.Co.
maestro del coro Alfonso Caiani
orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano

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L'As.Li.Co, Associazione Lirica e Concertistica Italiana, fu fondata nel 1949 dal Conte Giovanni Treccani degli Alfieri, al fine di perseguire una vasta attività di promozione dell'opera lirica.
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La vita di Jacques Offenbach

Offenbach, dal 1833 si stabilì a Parigi, dove studiò con Halèvy, e iniziò l’attività di musicista suonando come violoncellista in orchestra.

Nel 1839 fu rappresentata la sua prima operetta, dal 1850 fu direttore d’orchestra al Thèatre Francais, e dal 1855 direttore del Thèatre Bouffes, mentre i suoi lavori teatrali acquisivano rapidamente fama.

Fu poi impresario, per breve tempo, e infine si dedicò completamente alla prodizione di operette.

La sua ultima opera è un esempio di opèra-comique, “I racconti di Hoffmann”, opera rappresentata postuma nel 1881, nella quale Offenbach rende omaggio al suo scrittore preferito; in questo lavoro è possibile intuire un clima psicologico melanconico che è invece totalmente sconsciuto agli Strauss, ai Lehar, insomma agli altri suoi colleghi dell’area di lingua tedesca, che non concepivano incertezze sulla fastosità dell’Impero.
Lo spunto iniziale dei soggetti dei lavori di Offenbach fu la satira alla Francia imperiale; il pubblico ben si identificava con tale atteggiamento ironico, e questo determinò il suo grande successo iniziale.

Non è da dimenticare neppure che le origini di Offenbach erano tedesche ed ebree, e quindi la sua capacità creativa veniva arricchita dai suoi elementi culturali personali innestati su uno stile di scrittura profondamente radicata sulla scuola francese.

Venne definito “il piccolo Mozart dei Champs Elysèes”, e la definizione non è davvero eccessiva: altra caratteristica peculiare della sua opera è l’eleganza e la leggerezza d’esecuzione necessaria per rendere al massimo l’estetica della sua opera compositiva.

In questo senso, il suo nome è da accostare a quello degli Strauss Junior e Senior – per l’eleganza della musica e del suo movimento danzante – e a quello di Suppè e Lehàr per la forma.

Tra la sua vastissima produzione – famosissima in tutto il mondo – sono da rammentare “Grande-duchesse de Gèrolstein” del 1867, “Barbe Bleue” del 1866, “La via parisienne” del 1866, “La fille du tambourmajor” del 1879, e innumerevoli altre.  Les Contes d'Hoffmann 10 Febr. 1881 Opéra-Comique Paris


Quando Jacques Offenbach morì, nel 1880, all’età di sessantun anni, stava componendo Les Contes d’Hoffmann . «Ho un vizio tremendo, incorreggibile, – aveva detto di se stesso – quello di lavorare senza sosta. Me ne dispiaccio per chi non ama la mia musica, perché quasi certamente morirò con un’aria sulla punta della penna». A questa opera, che sperava gli aprisse le porte dell’Opéra-Comique, pensava dal 1851, suggestionato da una pièce di Jules Barbier e Michel Carré (i futuri librettisti del Faust di Gounod) che aveva visto all’Odéon. La traduzione teatrale dei racconti fantastico-demoniaci del romantico E.T.A. Hoffmann gli erano sembrati un libretto ideale e aveva continuato a sognare di musicarli mentre la sua fortuna declinava con il crollo, nel 1870, del Secondo Impero. Al plaisir aristocratico di un pubblico spregiudicato (tra gli altri, il satirico Thackeray e l’austero Tolstoj) che sapeva ridere di se stesso attraverso le mordaci operette del «Mozart dei boulevards », si sostituiva il divertimento moralista e corrivo di neoborghesi che chiedevano spettacolarità ed evasione. Il progetto si concretizzò al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, organizzato per riassestare le finanze precarie: Hector Salomon, direttore del coro dell’Opéra-Comique, al quale era stato affidato di musicare la pièce , cedette a Offenbach l’onore della composizione. Ma, a differenza degli altri lavori, Les Contes d’Hoffmann procedevano con lentezza: qualcosa, oltre la salute non buona del musicista, sembrava ostacolare la composizione. La prima lettura al pianoforte avvenne in casa Offenbach, in boulevard des Capucines, il 18 maggio 1879, alla presenza di Léon Carvalho, direttore dell’Opéra-Comique, e di Jauner del Ringtheater di Vienna, interessati ad assicurarsi i diritti di rappresentazione. E proprio all’Opéra-Comique, nella Salle Favart, Les Contes d’Hoffmann esordirono il 10 febbraio 1881 con Alexandre Talazac (Hoffmann), Adèle Isaac (Stella, Olympia, Antonia), Emile Taskin (Lindorf, Coppélius, Miracle), Marguerite Ugalde (Nicklausse). Come aveva sognato, Offenbach, mai veramente appagato dai meritati successi delle sue operette, da Orphée aux Enfers a La belle Hélène , da La vie parisienne a La Grande-Duchesse de Gerolstein , conquistò il teatro dove pochi anni prima, nel 1875, era andata in scena la Carmen di Bizet. La morte prematura, il 5 ottobre 1880, gli impedì però di assistere all’agognata incoronazione. Completata da Ernest Guiraud, che trasformò la maggior parte dei dialoghi parlati in recitativi (a Guiraud si devono anche i recitativi di Carmen ), privata di un atto, quello di Giulietta, e rimaneggiata con libertà dall’impresario, l’opera che fu rappresentata era tuttavia assai diversa da quella che Offenbach aveva concepito. Si apriva così la strada da un lato a una ardua e forse irresolubile questione filologica (molto materiale autografo sembra sia bruciato nell’incendio alla Salle Favart del 1887), dall’altro a una lunga serie di nuove edizioni di volta in volta più o meno vicine all’originale.


Les Contes d’Hoffmann, di Jacques Offenbach (1819-1880)
libretto di Jules Barbier, dal dramma omonimo di Barbier e di Michel Carré e da E.T.A. Hoffmann

(I racconti di Hoffmann) Opéra-fantastique in un prologo, tre atti e un epilogo

Prima: Parigi, Opéra-Comique, 10 febbraio 1881

Prologo . La taverna di mastro Luther, rischiarata dalle luci della notte. Gli spiriti del vino e della birra animano, invisibili, la serata intonando un coro alle gioie della vita (“Glou, glou, glou”). Evocata dal loro canto, si materializza la Musa che, dopo un saluto festoso ai fumi della taverna, chiede agli spiriti di restituirle l’amore di Hoffmann. Da qualche tempo il poeta non ha occhi che per Stella, la cantante che ora sta trionfando sul palcoscenico del teatro vicino in un’opera di Mozart. Per raggiungere il suo scopo, la Musa assume le sembianze di un giovane, Nicklausse, e si unisce agli studenti e agli amici di Hoffmann. L’arrivo nella taverna del consigliere Lindorf, corteggiatore di Stella, seguito da Andrea, il servitore della cantante, immette nell’atmosfera una nota sinistra: non soltanto perché Lindorf si è impadronito di un biglietto amoroso, indirizzato a Hoffmann, in cui Stella ha messo le chiavi del suo appartamento, ma per la tracotanza e il cinismo dell’uomo, convinto di conquistare la cantante con le armi dell’astuzia (“Dans les rôles d’amoureux langoureux”). Luther e i suoi aiutanti si preparano intanto a ricevere la primadonna. Si apre una porta sul fondo, una corte di studenti entra in scena brindando al ritmo di una canzone goliardica (“Drig, drig, drig”). Dopo i giovani compaiono anche Hoffmann e Nicklausse e subito il poeta è al centro dell’attenzione. Sembra preoccupato: «Notte e giorno mal dormire» risponde enigmaticamente, con una citazione mozartiana, agli amici che lo interrogano. Ma nella taverna non c’è spazio per le malinconie d’amore: incalzato dai presenti Hoffmann è costretto a reagire e a raccontare la leggenda del buffo nano Kleinzach (“Il était une fois à la cour d’Eisenach...”). L’immagine di Stella finisce però con l’affiorare anche tra le descrizioni di quell’essere bizzarramente deforme e Hoffmann si perde di nuovo tra i suoi pensieri prima di essere riportato alla realtà dagli amici che vogliono ascoltare la conclusione della storia. Appartato ma attento a ogni sfumatura, Lindorf osserva il rivale incupirsi, poi negare di essere innamorato e inneggiare all’ebbrezza. Decide così di sferrare il suo attacco, con provocazioni che colpiscono Hoffmann nel segno. Nonostante l’evidenza, il poeta continua a fingere distacco dalle donne e dall’amore, ma alla fine, stuzzicato anche dagli studenti, accetta di confessare tre storie appassionate di cui è stato protagonista.

Atto primo . Nel suo studio di scienziato il fisico Spalanzani sta ammirando la sua ultima creatura. Ed è con piacere misto a riluttanza che se ne stacca per ricevere Hoffmann, il migliore tra i suoi allievi, venuto a festeggiare con altri invitati illustri l’ingresso in società di sua figlia Olympia. Rimasto solo in salotto, per permettere a Spalanzani e al suo servitore balbuziente Cochenille di ultimare i preparativi, Hoffmann vede la ragazza dormire dietro una tenda ed è subito preso d’amore per lei. Con argomentazioni oscure Nicklausse esorta il poeta alla prudenza: invano. Annunciato dalla stessa nota sinistra che aveva accompagnato Lindorf arriva intanto Coppélius, uno strano commerciante di lenti, che mostra a Hoffmann le sue merci meravigliose – occhialetti, piccoli binocoli e autentici occhi (“J’ai des yeux, de vrais yeux”) – e riesce a venderne alcune all’ingenuo poeta. Un losco commercio sembra legare Coppélius e Spalanzani, che si contendono la paternità di Olympia e chiudono la questione con un accordo economico: un versamento dello scienziato (ma in una banca appena fallita). Gli ospiti riportano un clima di serena affettazione, cui aderisce il manierato padrone di casa presentando finalmente la figlia tanto decantata. La ragazza, avara di parole e dai movimenti stranamente legnosi, si esibisce in una chanson (“Les oiseaux dans la charmille”), durante la quale si sentono rumori sospetti di caricamento meccanico che rianima i gorgheggi quando sembrano spegnersi. Nemmeno il poeta, in un romantico tête à tête , riesce a scuotere la fanciulla dal suo mutismo: come risposta alle parole d’amore ottiene soltanto dei laconici ‘sì’. E quando si aprono le danze, la giovane sfinisce con i suoi inarrestabili volteggi l’arrendevole Hoffmann, sempre più innamorato. Dopo il ballo, assistita da Cochenille, la silente Olympia si ritira, ma presto un rumore di ferri rotti scioglie i dubbi degli invitati e rompe l’incantesimo del poeta: Coppélius, infuriato per l’imbroglio di Spalanzani, ha distrutto la algida fanciulla, che altro non era se non un fiabesco automa.

Atto secondo . Una stanza nella casa del liutaio Crespel, a Monaco. Su una parete, tra violini appesi, incombe un ritratto di donna. Seduta al clavicembalo, Antonia, la figlia di Crespel, intona una canzone (“Elle a fui la tourterelle”). La sua voce melodiosa fa trasalire il padre, che entra nella stanza e, correndo verso di lei, la implora di smettere. Una malattia mortale, provocata dal canto, minaccia Antonia, la stessa che ha già tolto la vita a sua madre. Ma la giovane, attratta irresistibilmente dalla musica, sembra non curarsene. Per scongiurare il peggio, il padre bada che nessuno, in particolare Hoffmann, avvicini la figlia e istruisce in proposito il vecchio servitore, il sordo Frantz, che annuisce senza avere inteso. Al contrario, non appena Crespel è uscito, Frantz apre la porta di casa al poeta e al suo amico Nicklausse. Finalmente soli, Antonia e Hoffmann amoreggiano (“C’est une chanson d’amour”) sino a quando il ritorno di Crespel li obbliga a separarsi e il poeta deve nascondersi. Tetragono agli ordini del padrone, Frantz introduce persino il dottor Miracle, colpevole di avere ucciso, con i suoi malevoli inviti a cantare, la madre di Antonia. Grazie alle sue facoltà medianiche, il diabolico dottore induce la ragazza a gorgheggiare, mentre Hoffmann, che ha scoperto la verità, teme con il liutaio per la sua vita. Crespel riesce a sventare il pericolo, ma Miracle, cacciato dalla porta, rientra magicamente da una parete e i due finiscono con l’accapigliarsi. Intanto Hoffmann, uscito dal suo nascondiglio, scongiura l’innamorata di rinunciare alla musica. Miracle però istiga di nuovo Antonia a cantare e per convincerla chiama in aiuto lo spettro della madre, la cui voce esce improvvisamente dal ritratto appeso alla parete. Antonia non resiste alla tentazione e muore tra le braccia del padre e dell’affranto Hoffmann.

Atto terzo . In un lussuoso salone di un palazzo veneziano. Giulietta, fascinosa cortigiana, intrattiene gli ospiti di una festa spumeggiante. Fuori scena, due voci femminili (tradizionalmente quelle di Giulietta e di Nicklausse) e il coro si uniscono in una barcarola (“Belle nuit, ô nuit d’amour”). Hoffmann risponde con un chant bacchique , già pronto per una nuova avventura amorosa. La conoscenza di Peter Schlémil, corteggiatore discreto ma tenace di Giulietta, accende la gelosia e insieme il desiderio del poeta, ignaro di quanto la sorte abbia in serbo per lui. Mentre gli invitati, spinti dalla cortigiana, si spostano nella sala da gioco, appare un sinistro personaggio, il sedicente capitano Dapertutto. L’uomo, dotato di poteri magici, possiede un diamante prezioso quanto rarissimo, con il quale seduce Giulietta (“Scintille, diamant”) promettendo di donarglielo se priverà Hoffmann del suo riflesso così come ha tolto a Schlémil la sua ombra. La donna ubbidisce: attira a sé il poeta, lo circuisce, lo deruba e, quando lo scempio è avvenuto, lo deride. Accecato d’ira, Hoffmann si batte a duello con Schlémil, uccidendolo. Ma l’avida cortigiana gli sfugge imbarcandosi su una gondola con il servitore Pitichinacchio, mentre Nicklausse trascina via l’amico per salvarlo dall’arresto.

Epilogo . Nella taverna di mastro Luther i presenti hanno finito di ascoltare i racconti e ora accettano l’invito di Hoffmann a bere e a brindare alle tre donne, in cui si sommano i diversi aspetti di una sola: Stella. Applausi, acclamazioni fuori scena: nel teatro vicino l’opera è finita. Lindorf si affretta a raggiungere la primadonna, mentre il poeta esita. Riappare allora la Musa, nelle sue sembianze divine, e come all’inizio prega Hoffmann di dedicarsi all’arte. Si sentono le voci di un coro (“On est grand par l’amour et plus grand par les pleurs”). Il poeta, turbato, si unisce al canto.


Ispirati a tre racconti di Hoffmann ( L’uomo della sabbia , La storia del riflesso perduto e Il violino di Cremona ), Les Contes d’Hoffmann fanno dello scrittore romantico amato da Baudelaire e da Balzac, da Poe e da Dostoevskij un «maestro e signore del mondo delle cose», secondo la illuminante definizione di Adorno. Senza rinunciare alla leggerezza di tocco che contraddistingue il suo stile, Offenbach, «mago della parodia e parodista dei miti», aderisce alle visioni notturne di Hoffmann rendendole reali e sinistramente quotidiane. Il demoniaco cui dà voce e corpo non appartiene alle potenze del mondo occulto, ma esce dagli oggetti e dalle case come Miracle dalle pareti di Crespel: la bambola meccanica con gli ‘occhi veri’ nasce dalle mani di Spalanzani; il ‘riflesso’ del poeta rubato da Giulietta (diretto il riferimento all’ombra venduta al diavolo nella Meravigliosa storia di Peter Schlemil di Chamisso) è l’effetto malvagio di un «diamante prezioso»; la morte di Antonia (travolta dalla forza diabolica della musica come il Johannes Kreisler della Kreisleriana di Hoffmann) viene causata dal ritratto della madre, «modello letale – aggiunge Adorno – di ogni ritratto di famiglia». Degli spiriti evocati nessuno può liberarsi e su tutta l’opera, dissimulata, incombe la sciagura: nella canzone goliardica degli studenti, esplosione di vitalità che confina con il timore di perderla; nella ballata di Kleinzach, « petit avorton »; nel ticchettìo della carica che accompagna la chanson di Olympia; nella barcarola veneziana (ripresa dal canto degli elfi dell’offenbachiano Rheinnixen ) che sale come un’ombra dalle profondità lagunari; nella voce drammatica della madre di Antonia; nel canto che alla fine turba il poeta. Molti, e sostanziali, sono i cambiamenti apportati all’originale dai revisori, a partire da Guiraud per arrivare ad André Bloch e Pierre Barbier, autori della production di Montecarlo del 1904, e all’edizione Choudens (che si suol dire ‘tradizionale’) del 1907. Tra i principali: i recitativi al posto del parlato; la soppressione dell’atto di Giulietta e il successivo ripristino della scena al secondo atto anziché al terzo; la fuga di Giulietta alla fine della scena veneziana anziché la morte per veleno; l’inserimento di nuove arie – tra le più celebri e le più amate dell’opera – per Dapertutto (“Scintille, diamant”) e Coppélius (“J’ai des yeux, de vrais yeux”). Fra i tentativi di ‘restauro’ compiuti negli ultimi quarant’anni si segnalano le edizioni di Hammond, Felsenstein, Bonynge e, in particolare, quelle di Antonio de Almeida, Oeser e Kaye, condotte su materiale rinvenuto recentemente. A differenza di quanto avveniva in passato, oggi si tende a riunificare in un solo interprete i ruoli delle amanti di Hoffmann (Stella, Olympia, Antonia e Giulietta), delle personificazioni del Male (Lindorf, Coppélius, Miracle e Dapertutto), della Musa e del suo sdoppiamento en travesti Nicklausse. Nuove aggiunte sono costituite da una piccola aria di Niklausse nel prologo; da una diversa sutura tra prologo e atto primo (di Olympia), ripresa nel passaggio tra il terzo (di Giulietta) e l’epilogo; da un’aria con violino concertante di Niklausse nell’atto secondo (di Antonia) e dalla cosiddetta ‘apoteosi’ nel finale, in luogo del coro degli studenti.


Direttore d’orchestra - Francesco M. Colombo

Francesco Maria Colombo, milanese, ha svolto gli studi di pianoforte con i Maestri Lualdi e Brunamonti del Conservatorio di Milano. Ha poi studiato presso l’Accademia Musicale di Pescara, con i Maestri Gusella e con Renzetti, conseguendo il diploma di alto perfezionamento in direzione d’orchestra. Al contempo ha frequentato i corsi tenuti dai Maestri Ferrara e Giulini presso l’Accademia Chigiana di Siena. Dopo gli studi, si è dedicato all’attività di critico e saggista musicale, collaborando con tutte le principali istituzioni italiane e, dal 1993, con il “Corriere della Sera”, per il quale ha scritto migliaia di reportages da tutto il mondo. Ha debuttato nel 1998 con l’Orchestra Stabile di Como, accompagnando il soprano Renata Scotto sia come direttore d’orchestra, sia come pianista. Da allora, ha collaborato come direttore con la Palm Beach Opera (Otello, ma nello stesso teatro ha anche interpretato il ruolo del pianista Boleslao Lazinski in Fedora), con il Teatro Lirico di Cagliari (tournée di 12 concerti con la Sinfonietta), con la Vidin Philharmonic Orchestra in Bulgaria e, recentemente, con la Hungarian Symphony Orchestra, ottenendo un grande successo all’Accademia Liszt di Budapest nel maggio 2001. Con la stessa orchestra inciderà a Budapest, nella prossima primavera, il suo primo cd, dedicato a Respighi.

Nel 2001 Gian Carlo Menotti, che ne ha seguito l’attività e gli ha donato, con un forte gesto simbolico, la bacchetta di Thomas Schippers, lo chiama a dirigere il tradizionale concerto in piazza a conclusione di Spoleto Festival. Il 15 luglio, davanti a un pubblico di 8.000 persone, Francesco Maria Colombo ha guidato i complessi del Festival e la Choral Arts Society di Washington D.C. in musiche di Mendelssohn, Ciaikovskij e Borodin. Il concerto, che è stato trasmesso in diretta tv dalla Rai , gli ha ottenuto un successo strepitoso ricevendo una straordinaria risonanza attraverso gli organi di stampa. Da quel giorno, Francesco Maria Colombo ha lasciato l’attività di critico per dedicarsi totalmente alla direzione d’orchestra. Il 2002 lo ha portato con successo sul podio dell’Orchestra Sinfonica Siciliana a Palermo (Beethoven e Nona Sinfonia di Schubert), del Teatro Lirico di Cagliari, dell’Orchestra di Roma e del Lazio all’Accademia di Santa Cecilia (Rameau, Fauré, Saint-Saens), dell’Orchestra Stabile di Bergamo al Teatro Donizetti (Mozart, Stravinskij, Mendelssohn), della Philarmonia Veneta (Debussy, Copland, Strauss), della Philharmonia Mediterranea e del Coro Mysterium Vocis di Napoli (Pergolesi). Francesco Maria Colombo tornerà al Festival di Spoleto 2002 per una nuova produzione di due opere di Menotti, The Telephone e The Medium, con la regia del compositore stesso. Fra gli impegni futuri si contano il Don Giovanni al Festival di Orvieto, Mese Mariano al Festival Giordano di Baveno, Les Contes d'Hoffmann di Offenbach nella produzione As.Li.Co a Brescia, Como, Cremona e Pavia, Un giorno di Regno a Busseto per la conclusione dei tre anni di celebrazioni verdiane, concerti con l'Orchestra Regionale Toscana a Firenze, in Palazzo Pitti (Mozart, Beethoven), e con l'Orchestra Sinfonica di Milano "Giuseppe Verdi" (Satie, Milhaud, Lord Berners, Cole Porter).

Gigi Dall’Aglio - Regista

Nato il 4 maggio 1943. Inizio: 1963 come attore prima, poi come regista  e direttore del Teatro universitario di Parma. Per molti anni direttore del Festival internazionale del Teatro Universitario o organizzatore delle manifestazioni culturali collaterali. Laureato in Storia del Teatro con una tesi sul “Maggio drammatico cantato”. Socio fondatore di una delle prime cooperative di Teatro in Italia: “La compagnia del Collettivo” (un’irripetibile esperienza di lavoro di gruppo), del “Teatro due “(direttore artistico), del “Teatro stabile di Parma” e dell’attuale Festival internazionale di Teatro (vice presidente). Insegnante di Teatro e conduttore di stage in varie scuole d’arte drammatica: Paolo Grassi a Milano (attualmente) ed in altre città in Italia e all’estero: Strasburgo, Francoforte, S.Paulo, Rio de Janeiro, Tunisi, ecc. - Curatore e consulente di convegni nazionale e internazionali su temi teatrali e di un progetto per la creazione di una Facoltà del Teatro presso l’ IUAV. - Attore e regista (in alcune occasione anche scenografo) per più di 150 spettacoli tra prosa e lirica (Verdi e Puccini i principali) in Italia e all’estero (varie città e capitali europee, Stati Uniti, Sud America, Australia).  Tra questi i più importanti degli ultimi anni : L’Istruttoria di P. Waiss (in giro per l’Italia da 18 anni), tre testi di Shakespeare: Amleto, Macbeth, EnricoIV visti per più di dieci anni in molte capitali europee e rassegne extraeuropee, uno spettacolo su Buchner (A che punto siamo della notte) e una Trilogia (Antigone,Edipo re, Edipo a Colono) di Sofocle presentati spesso in manifestazioni internazionali; una prima nazionale assoluta de’ Le nozze di Canetti e due creazioni sulle figure di Freud e di Francesco d’Assisi. Tra gli ultimi lavori che hanno “girato” in Italia: un Molto rumor per nulla e, sempre di Shakespeare (per un totale di una decina di testi), La bisbetica domata e Come vi piace per l’apertura alla prosa del Teatro Farnese di Parma; una Bottega del caffè che si accoppia ad un altro, La bancarotta, cooprodotto col teatro di Reims, Vita di Galileo di Brecht e L’Idiota da Dostoievkj. Le ultime cose: sette regie teatrali e televisive di altrettanti atti unici contemporanei commissionate da RAI international, e uno spettacolo tratto dai Laudari perugini nel chiostro di S.Lorenzo della cattedrale di Perugia. Oltre che in lingua francese (attore e regista), spettacoli in altre lingue sono un Giulio Cesare   di Shakespeare al TTT in Finlandia, Bigatis di Bartolini e Patui in lingua friulana a Udine e Il massacro di Parigi   di Marlowe in arabo classico al Teatro nazionale di Tunisi. Nella lirica opere di Verdi, Puccini, Malipiero e Satie. - Socio fondatore della Fondazione Teatro due di Parma (2000).

Qualche riflessione sull’opera di Offenbach – note di regia di Gigi Dall’Aglio

Ho un ricordo particolare de’ “I racconti di Hoffmann”. Un film visto da bambino. Ho poi verificato che tale film è esistito e che si trattava effettivamente di un prodotto di tutto rispetto. Non ricordo nulla di preciso, ma mi è rimasta la sensazione di un diffuso turbamento che mi faceva porre infinite domande ai genitori per avere risposte su questo e su quello. Ripensandoci oggi: lo stesso turbamento delle fiabe dei Grimm. Evidentemente una certa linea “popolare” del romanticismo di centro Europa toccava nel profondo, alla radice dell’anima e dei rapporti col mondo. Faceva suo quell’apparato di simboli che pochi anni dopo qualcuno avrebbe scoperto come presenti e attivi nella nostra psiche e manifesti nella dimensione onirica.

Proprio a questo ho ripensato nell’accingermi allo studio di quest’opera che ho poi avuto modo di apprezzare da adulto anche per le sue finezze musicali e di struttura. Essa appartiene a quei casi di produzione artistica che, pensati a tavolino, secondo i canoni dello spettacolo del tempo (artigiani del libretto, professionisti dell’orchestrazione, vulgata di cultura elitaria, intervento d’autore un po’ più ispirato, ecc.), ha tuttavia trovato la magica “congiunzione degli elementi” ed è approdata all’arte con spalle robuste che le hanno consentito di passare indenne attraverso ritocchi, tagli, spostamenti e manipolazioni varie. La storia e la leggenda hanno finito poi col legare a quest’opera fatti che se possibile ne arricchiscono il fascino e una certa morbosa suggestione all’atto dell’ascolto.

Mi  pareva opportuno quindi distinguere i piani di colui che raccontato racconta, di coloro che chiedono il racconto, di chi evocato è più protagonista del narratore e di chi compie l’atto di assistere non solo nel momento dell’attuazione teatrale, ma all’interno dell’atto narrato. Ma, come già è nell’intenzione dell’autore, la vera malìa sta nel fatto che questi piani appartengono allo stesso sistema e quindi, in teatro, allo stesso spazio, o quantomeno alla dimensione in cui gli spazi tendono a confondersi nell’unica forma della “rappresentazione”. Come avviene appunto nella sfera onirica dove il soggetto si confonde con l’oggetto e tutto scorre e si involve con arbitraria e morbosa libertà. Ogni racconto si svolge con qualcuno che osserva, salvo quello di Antonia che per questo forse gode di una maggiore autonomia, ma che proprio per questo ritengo giusto collocarlo nel mezzo come una sorta di claustrofobica sospensione. Ma, per la legge del teatro, chi osserva ovviamente è osservato e il diverso momento e luogo delle vicende che si raccontano sono salti, come nei sogni dove l’unità dell’emozione non esclude improvvise variazioni d’ ambiente e contorsioni nella stretta logica della concatenazione dei fatti. Non c’è caos però: la parte soggettiva del delirio è a sua volta oggetto. Lo dice la musica perturbante e allo stesso tempo limpida e lo dice anche una corrente di ironia che attraversa tutto il tessuto onirico e  rende così plausibili, nella stesura drammatica, sforamenti comici, abbandoni patetici, tensioni tragiche, cinico sarcasmo, tenerezza, favola e scettico disincanto.  Il personaggio Hoffmann  pertanto si troverà ad agire in uno spazio agorofobico accanto ai personaggi da lui stesso evocati, e agli interpreti non resterà altro da fare se non immergersi con inconscia leggerezza nel tessuto musicale che li accompagna alla scoperta di tutte le elusive sfumature con cui l’opera è ordita.

 

DAL PROGRAMMA DI SALA DELLA STAGIONE LIRICA DEL TEATRO GRANDE

 Quando c'è di mezzo lo zampino del diavolo...     Di Luigi Fertonani

Una tipica mattina autunnale, quella del lontano 5 ottobre 1880 a Parigi. Léonce, uno dei vecchi attori del teatrino dei Bouffes-Parisiens aveva deciso di far visita all'amico Jacques Offenbach, a letto da alcuni mesi. Gli alti e bassi della malattia del musicista non promettevano nulla di buono, a questo pensava sicuramente Léonce mentre ricordava che a far la fortuna del teatrino dei Bouffes era stato proprio lui, Offenbach, più di vent'anni prima col suo Orphée aux Enfers del 1858 trasformatosi in un vero e proprio folle trionfo di pubblico. Ed ora il maestro, malattia permettendo, stava lavorando a un'altra partitura in cui spuntavano dal nulla demoni e maghi, quei Contes d'Hoffmann cui Offenbach dedicava i ritagli del suo tempo preso com'era dal turbine delle commissioni delle sue operette, da Madame Favart a La fille du tambour-major. Arrivato come fu all'ingresso dell'abitazione del musicista, a Léonce si fece incontro il portiere della casa che lo informò contrito che il signor Offenbach era morto quella notte, «...tranquillamente, senza accorgersene». E sul dolore e sullo sconforto dell'amico per un istante prevalse l'indomabile spirito dei Bouffes: «Chissà che sorpresa - borbottò il vecchio Léonce - quando se ne accorgerà!».

Terminava così l'avventura terrena di Jacques Offenbach e iniziava invece la burrascosa vicenda dei Contes d'Hoffmann, un'avventura destinata ad arrivare praticamente fino ai giorni nostri e degna della vita del suo autore. Ricordiamo anzitutto che Offenbach non era affatto d'origine francese, era nato a Colonia nel 1818 e il suo vero nome era Jakob Offenbach. Dunque un altro emigrante si era un giorno diretto a Parigi, dov'era arrivato a quattordici anni e dove si era fatto presto conoscere come violoncellista. Presto il giovane Offenbach aveva iniziato a scrivere romanze e a puntare verso quel teatro leggero che avrebbe fatto la sua fortuna, e se le commissioni di operette lo avrebbero assillato per tutta la vita, fino alla fine come abbiamo visto, eppure i Contes d'Hoffmann, che aveva conosciuto nel dramma di Barbier e Carré, erano destinati a rimanere nel suo cuore e nei suoi interessi. Anche se in realtà si sarebbe deciso a metter mano a questo lavoro "serio" soltanto nel 1876.

Arrivava un po' tardi Offenbach, perché Jules Barbier, uno dei due autori del dramma (Carré era morto qualche anno prima) aveva avuto nel frattempo l'incarico dall'Opéra-Comique di trasformare il suo dramma in libretto e questo era praticamente ormai pronto. Una volta tanto, nel mondo dello spettacolo, dobbiamo a questo punto registrare un gesto di generosità: perché Barbier rinunciò a condurre personalmente l'impresa e passò amichevolmente il libretto a Offebach.

Questi lo ricompensò lavorando ai Contes d'Hoffmann con una lentezza per lui insolita. Era ammalato, è vero, ma per il teatro leggero in quegli anni realizzò addirittura ben otto lavori. Era forse il meccanismo, l'ingranaggio dell'operetta a riuscirgli più familiare e quindi più facile mentre a questa sua nuova impresa seria, concepita al di fuori della fretta per le scadenze, Offenbach dedicò evidentemente soltanto le briciole del suo tempo, anche se si era premurato di prendere accordi per la rappresentazione dei Contes d'Hoffmann con il Théâtre-Lyrique... che ben presto fallì e Offenbach si trovò a lavorare senza contratto alcuno.

Un contratto alla fine lo ebbe, nel 1879, quando fece ascoltare al pianoforte alcuni brani del suo nuovo lavoro a Carvalho, il direttore dell'Opéra-Comique; si decise allora che l'opera sarebbe stata rappresentata nel cartellone dell'inverno successivo ed era assicurata anche la sua ripresa al Ringtheater di Vienna per l'anno successivo.

Diventava dunque realtà un progetto immaginato per molti anni, ma questo avveniva proprio mentre il fisico di Offenbach decadeva sempre più e il musicista temeva non soltanto di non vedere i Contes d'Hoffmann rappresentati, ma neppure di riuscire a finirli.

Probabilmente fu proprio così. Diciamo probabilmente perché forse non lo sapremo mai, mentre sappiamo con certeza ad esempio che, alla morte di Offenbach, l'opera non era ancora strumentata tranne che per due brani che egli aveva usato per altri lavori precedenti, la canzone di Hoffmann nel quadro di Giulietta e soprattutto la celebre Barcarola che veniva dal balletto Die Rheinninxen andato in scena nel 1872 al Teatro del'Opera di Vienna. Offenbach infatti non metteva mai in partitura le sue opere, ma era solito fornire precise indicazioni in merito ai suoi collaboratori che poi, all'avvicinarsi della data della rappresentazione, provvedevano a questo compito. Il problema è che non sappiamo a che punto fossero giunte queste indicazioni dell'autore per i Contes d'Hoffmann, anche perché i manoscritti sono andati perduti. Fu Ernest Guiraud, l'amico di Bizet al quale dobbiamo ache i recitativi della Carmen l'incaricato di redigere la partitura di Offenbach, ma sicuramente Guiraud non si limitò a questo compito, trasformando ad esempio in recitativi alcuni dialoghi che nelle intenzioni originali dovevano essere soltanto parlati. Ma soprattutto è evidente una modifica assolutamente radicale: durante le prove dei Contes d'Hoffmann venne addirittura soppresso il quadro veneziano di Giulietta, con una conseguenza abbastaza ridicola; la Barcarola infatti venne trasferita dietro le quinte e usata come sottofondo al quadro di Antonia, che divenne così "veneziana" anziché figlia di un liutaio di Monaco.

Eppure, anche così snaturata, l'opera di Offenbach ottenne da subito un successo strepitoso: in quell'anno 1881 all'Opéra-Comique si contarono più di cento rappresentazioni dei Contes d'Hoffmann. E il teatro francese manteneva l'impegno preso con Offenbach: l'opera andava in scena il 7 dicembre dello stesso anno al Ringtheater di Vienna. Ma già la sera successiva la sua fortuna venne interrotta da una terribile sciagura, un incendio che distrusse il teatro viennese e provocò la morte di ben quattrocento spettatori.

Un caso, certo, lo zolfo di Mefistofele non c'entra proprio, come di fatalità si tratta per l'incendio che di lì a sei anni avrebe distrutto la sede dell'Opéra-Comique. Una perdita particolarmente grave stavolta per i Contes d'Hoffmann, perché in questo nuovo incendio andarono perduti anche molti documenti che avrebbero potuto chiarirci le idee, a partire dal manoscritto originale che quasi sicuramente si trovava all'Opéra-Comique. Il lavoro di Offenbach subì nei decenni successivi un'altra serie di manipolazioni: fu ripristinato il quadro di Giulietta, ma fu messo al secondo posto nell'ordine dei racconti, e non al terzo come Barbier e Offenbach l'avevano immaginato. Nel frattempo Guiraud o forse qualche altro revisore aveva soppresso alcuni brani parlati e ne aveva trasformati altri in recitativi; questo aveva portato alla soppressione della figura della Musa che nell'opera ha il compito di spiegare e a alla fine di sublimare la vicenda.

Così i Contes d'Hoffmann diventavano così semplicemente una serie di avventure amorose, compresa quella con Stella che nella versione originale Hoffmann alla fine respinge grazie anche all'intervento dela Musa, e che nella revisione invece trova lo studente addormentato e semplicemente se la fila col furbo Lindorf.

Col Novecento inizia un graduale ripristino dell'opera di Offenbach, a cominciare da Hans Gregor che si mette sulle tracce di brani inediti dei Contes d'Hoffmann fino a recarsi a Parigi dove scopre ad esempio l'Aria delle lenti di Coppelius, e che ha il merito di ristabilire il prologo e l'epilogo nella taverna. Ma per riavere le parti originali parlate e soprattutto l'ordine corretto degli atti doveva passare ancora molto tempo, anche se il lavoro di Gregor ha avuto il merito di provocare una nuova edizione del materiale musicale, sia della partitura che delle parti staccate.

Max Reinhardt a Berlino sarebbe invece andato controcorrente montando uno spettacolo i cui testi erano stati scritti in gran parte per l'ocasione e musicati con brani tratti da altri lavori di Offenbach: uno spettacolo ovviamente nient'affatto filologico ma che ebbe una fortuna straordinaria, con centinaia e centinaia di repliche. Walter Felsenstein invece, come regista alla Komische Oper di Berlino ebbe il merito di ristabilire definitivamente il ruolo della Musa, sopprimendo alcuni brani musicali e vari recitativi e soprattutto riportando al corretto terzo posto l'episodio di Giulietta. Non basta: anche l'editore Schott ha pubblicato in seguito una nuova partitura sulla base di altro materiale reperito negli ultimi decenni, sempe nella direzione di una più corretta riscoperta dell'opera di Offenbach.

Tutto sommato, per un lavoro da cui spuntano personaggi come perfidi incantatori, automi in vesti femminili, spade magiche e musiche assassine, questo clima di inafferrabilità magica e demoniaca calza a pennello: e vedremo sicuramente in futuro altri sviluppi dell'ormai secolare vicenda  dei Contes d'Hoffmann di Jacques Offenbach.

Trama

Opera fantastica in un prologo, tre atti e un epilogo su libretto di Jules Barbier, musica di Jacques Offenbach. Incompiuta, rivista con numerose modifiche da Ernest Guiraud. Prima rappresentazione all’Opéra-Comique di Parigi il 10 febbraio 1881. Interpreti: Isaac, Talazan, Taskin, Grivot, Belhomme, Gourdon, Troy, Teste, Collin.

Prologo La taverna di mastro Luther. E’ notte, il locale è vuoto e gli spiriti del vino e della birra stanno danzando; fra loro c’è anche la Musa che ispira il poeta Hoffmann. Gli spiriti escono di scena ed entra il consigliere Lindorf seguito dal servitore di Stella, Andrea. Stella è un’acclamatissima artista italiana che proprio in quel momento nel teatro vicino sta cantando nel Don Giovanni di Mozart. Lindorf, innamorato della donna, corrompe Andrea e riesce così a farsi consegnare una lettera che la cantante aveva indirizzato a Hoffmann e che contiene, oltre alla chiave della casa di Stella, anche un appuntamento amoroso per quella stessa notte. Hoffmann fa il suo ingresso nella taverna tra una folla di studenti fra i quali c’è Nicklaus, che altri non è se non la Musa del poeta che si è così trasformata per seguire Hoffmann, per proteggerlo dalle passioni amorose e ricondurlo alla fine a lei. Gli studenti invitano Hoffmann a cantare (La légende de Kleinzach) ma a metà delle sue strofette il poeta s’interrompe per seguire con il canto l’immagine di Stella, di cui è innamorato; ma poi rientra in sè, al richiamo degli amici, e termina il suo canto. A questo punto Lindorf, che già assapora il colpo combinato poco prima con Andrea, provoca Hoffmann e lo invita a parlare delle sue avventure amorose. Il poeta afferma di amare in Stella tre donne diverse, e ne racconterà ora le tre storie.

Atto primo, quadro primo Il laboratorio di Spalanzani. Hoffmann è innamorato della figlia del fisico Spalanzani, Olimpia, ma non sa che questa non è altro se non una bambola meccanica che lo scienziato stesso ha creato, aiutato dallo stregone Coppelius che gli ha fornito gli occhi della sua straordinaria creazione. Basta toccarlo sulla spalla e immediatamente il meraviglioso meccanismo in forma di donna si mette a parlare, a cantare e a ballare. Ora Coppelius vuol essere pagato da Spallanzani per il suo lavoro e questi astutamente gli consegna una cambiale avuta dal banchiere ebreo Elias, che però è da poco fallito, e si libera così dallo stregone invitando poi Hoffmann a seguirlo.

Quadro secondo Una grande sala. Spallanzani fa ammirare ai suoi invitati Olimpia, che ha cantato una canzone (Les oiseaux dans la charmille, nella versione italiana L’usignol nel suo boschetto) e che ora danza un valzer con l’illuso Hoffmann, sempre più rapidamente fino a farlo cadere sfinito. Coppelius nel frattempo è tornato per vendicarsi della truffa di Spalanzani e colpisce violentemente il giocattolo, distruggendolo, e solo allora Hoffmann scopre fra l’ilarità generale che la donna da lui amata era soltanto un automa.

Atto secondo A Monaco, in casa di Crespel. Antonia è la figlia del liutaio Krespel e di una famosa cantante, da poco scomparsa. La ragazza è seduta al clavicembalo e sta cantando Elle a fuit la tourterelle (Prese il vol la tortorella); ella possiede una splendida voce ma non può esercitarsi come vorrebbe perché un male misterioso, fatale e inesorabile la ucciderebbe. Il padre le reccomanda ovviamente di non farlo ed è irato con Hoffmann, di cui Antonia è innamorata, ed è per lui che la ragazza canta; e il padrone maltratta anche il vecchio e sordo servitore Frantz.. Crespel esce di casa e giunge Hoffmann, che non sa nulla del misterioso pericolo che sovrasta la ragazza, anche se Nicklaus che l’accompagna cerca di metterlo in guardia, e canta con la ragazza un duetto amoroso (C’est une chanson d’amour). Torna il padre e poco dopo giunge anche il satanico Dottor Miracolo a tentarla, promettendole gloria e felicità. Hoffmann, che l’ama e che ora è a conoscenza del pericolo sospeso su Antonia, la supplica di non ascoltare il consiglio del Dottor Miracolo. Quest’ultimo però astutamente evoca lo spirito della madre della fanciulla, che prende vita uscendo da un ritratto e che spinge la ragazza (Chère enfant que j’appelle) a cantare. Antonia intona allora un canto unendosi alla misteriosa e magica Voce, ma improvvisamente si accascia e muore sotto gli occhi del padre e del disperato Hoffmann, mentre il ritratto della madre riprende il suo aspetto originale e il Dottor Miracolo soprofonda nella terra scoppiando in una terribile risata.

Atto terzo A Venezia. In un palazzo sul Canal Grande si ode una delicata Barcarola (Belle nuit, o nuit d’amour - Dolce notte, i rai d’amor). La bella cortigiana Giulietta sta cenando con un gruppo di amici fra i quali, oltre il suo amante Schlemil, c’è anche Hoffmann. Giulietta è schiava del  demone Dapertutto e grazie ai suoi incantesimi ha conquistato il cuore e l’anima di Schlemil; ora ella vuole l’amore di Hoffmann, che poi cederà all’astuto demone. Il poeta infatti, sedotto dalla bellezza di Giulietta, sfida a duello il rivale con una spada magica prontamente offertagli da Dapertutto, e riesce a colpire Schlemil a morte. Hoffmann si impossessa quindi della chiave della stanza della donna e vi irrompe, ma solo per scoprire che la stanza è vuota. Affacciatosi alla finestra che dà sul Canal Grande il poeta fa appena in tempo a vedere Giulietta che si sta allontandano in gondola abbracciata a un’ombra maschile, il beffardo Pitichinaccio. Hoffmann, messo in guardia da Nicklaus, fugge prima dell’arrivo delle guardie.

Epilogo La taverna di mastro Luther. Hoffmann ha ormai terminato i suoi tre racconti. Olimpia, Giulietta e Antonia erano in realtà una sola donna, Stella, così come Coppelius, Dapertutto e Dottor Miracolo erano un solo essere demoniaco, Lindorf, che ora se la squaglia correndo all’appuntamento con Stella. Hoffmann, disperato di non aver potuto raggiungere nella realtà il suo sogno d’amore, cerca conforto nel vino ma gli appare la Musa (Et moi? moi, la fidèle amie) che lo consola e gli annuncia che in lei il poeta troverà la realtà dell’ideale.

Scelta discografica

Se c'è un'opera che nell'Ottocento, ma anche in seguito è stata sottoposta a rimaneggiamenti praticamente quasi infiniti questa è proprio quella dei Racconti di Hoffmann, a partire dalle mani che dovette mettervi Guiraud per completarla e farla mettere in scena. Neppure la successione degli episodi è sempre rispettata, tagli e differenze testuali sono all'ordine del giorno, solo per citare i problemi più evidenti. Fra le edizioni che preferiamo c'è quella del 1964 con Gedda e con la Schwartzkopf, seguita a ruota da quella del 1972 con Domingo e la Sutherland, nella quale l'episodio di Giulietta è spostato al centro dell'opera; e poi quella del 1989, realizzazione con la Norman e la von Otter, notevole non solo per le voci ma anche e soprattutto perché si tratta di una vera e propria nuova versione dell'opera, condotta sull'edizione Schott che integra nella partitura nuovo materiale faticosamente ritrovato in vari archivi e che ripristina tra l'altro in modo corretto il libretto originale. Fra le edizioni video decisamente da preferire quella del 1993 con la Hendricks, Galvez e Van Dam, recentemente ristampata anche in Dvd.

 Personaggi: Hoffmann, Olimpia, Giulietta, Antonia, Nicklaus, Coppelius, Lindorf, Dapertutto, Dottor Miracolo

 1937 - René Maison, Irra Petina, Lawrence Tibbett, Vina Bovy. Coro e Orchestra dell'Opera del Metropolitan, New York, Maurice Abravanel CD Naxos Historical NAX 110011-12

1947 - Raoul Jobin, Renée Doria, Vina Bovy, Géori Boué, Louis Musy, André Pernet, Charles Soix, Roger Bourdin, Fanely Revoil. Orchestra dell'Opéra di Parigi, Coro dell'Opéra Comique di Parigi, dir. André Cluytens. Columbia CX 1150/52, FCX 137/39. Ristampe: nel 1981 EMI 2 C 153 14151/3

1955 - Richard Tucker, Roberta Peters, Rise Stevens, Lucine Amara, Mildred Miller, Martial Singher. Orchestra e Coro del Metropolitan di New York, dir. Pierre Monteux. Cetra LO 45. Ristampe: Cetra DOC 44

 1964 - Nicolai Gedda, Gianna D'Angelo, Elisabeth Schwartzkopf, Victoria de Los Angeles, Nicolai Ghiuselev, George Londo, Ernest Blanc, Jean-Christophe Benoit. Orchestra della Società dei Concerti del Conservatorio di Parigi, dir. André Cluytens. HMV/SAN 154/56. Ristampe: EMI 157 00045/47

1972 - Placido Domingo, Joan Sutherland, Gabriel Bacquier, Huguette Tourangeau. Decca SET 545/7. Ristampe: nel 1986 Decca 417 363 2

 1979 - Siegfried Jerusalem, Janette Scovotti, Norma Sharp, Julia Varady, Ilse Gramatzki, Dietrich Fischer-Dieskau. Cantata in tedesco. EMI 157 45351/53

 1989 - Francisco Araiza, Jessye Norman, Cheryl Studer, Anne Sofie von Otter, Eva Lind, Felicity Palmer, Ricardo Cassinelli, Jurgen Hartfiel, Jean-Luc Chaignaud, Boris Martinovic, Samuel Ramey. Coro della Radio di Lipsia e Staatskapelle Dresda, dir. Jeffrey Tate. Philips 422 374 2 (3 cd)

Edizioni video

 1981 - Placido Domingo, Claire Powell, Robert Lloyd, Geraint Evans, Nikolai Ghiuselev, Siegmund Nimsgern, Paul Crook, Francis Egerton, Luciana Serra, Ileana Cotrubas, Agnes Baltsa. Orchestra e Coro della Royal Opera House Covent Garden, dir. Georges Prêtre. Regia di John Schlesinger, scene di William Dudley, costumi di Maria Björnson. Ripresa video di Brian Large. Castle CVI 2045 (Whs)

 1993 - Daniel Galvez, Brigitte Balleys, José Van Dam, Nathalie Dessay, Barbara Hendricks, Isabelle Vernet, Lisette Malidor, Gabriel Bacquier. Orchestra e Coro dell'Opera di Lione, dir. Kent Nagano, regia di Louis Erlo, scene di Philippe Starck, costumi di Jacques Schmidt e Emmanuel Pedruzzi. Ripresa video di Pierre Cavassilas. Pioneer PLMCB 00931 (Laser disc), RM Associates 070 048 3 (Whs), Arthaus ART 100190 (Dvd) 

 


 

 

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