Nessuna classe di strumenti musicali ha vissuto uno
sviluppo così impetuoso come quello che ha investito le percussioni nel
secolo scorso. I motivi sono stati espressi in maniera sintetica da John
Cage: «La percussione è tutta aperture. Non solo è illimitata. È
infinita. Non ha niente a che fare con gli archi, coi legni o con gli
ottoni (sto pensando agli strumenti delle orchestre), anche se questi
strumenti, quando volano via da quella stìa per polli che è l’armonia,
due o tre cose le potrebbero imparare, dalla percussione». Apertura
significa anche capacità di dialogare con l’altro e amore per ciò che
rappresenta la storia.
Queste caratteristiche sono l’elemento essenziale di un programma
eterogeneo come questo. Il punto di partenza è uno dei lavori più
conosciuti di Steve Reich, Music for Pieces of Wood. I “pezzi di legno”
sono cinque paia di claves, strumenti di origine cubana usati in tutte
le orchestre di musica da ballo latino-americana. I primi compositori a
introdurre le claves nelle loro partiture furono gli americani, a
partire da Edgar Varèse, generando una sorta di tradizione. Reich non ha
scelto a caso il suono acuto e penetrante delle claves, così tipico del
paesaggio culturale americano. All’inizio degli anni Settanta Reich si
era recato per alcune settimane in Ghana, per studiare le
caratteristiche della musica africana con il percussionista Gideon
Alorwoyie.
La conoscenza di tradizioni musicali non occidentali produsse una svolta
rilevante nella sua produzione. Reich lasciava la sua tipica tecnica
dello sfasamento ritmico di cellule melodiche e armoniche ripetitive per
mettere a fuoco una scrittura ritmica più elaborata e complessa. Music
for Pieces of Wood è un lavoro articolato in tre parti, ciascuna delle
quali è organizzata attorno a delle unità di base. I mattoni della
costruzione per così dire sono tre elementi ritmici rispettivamente in
6/4, 4/4 e 3/4. Gli esecutori hanno la libertà di decidere quante volte
ripetere le varie formule, finché il segnale di un musicista indica la
coda del lavoro. Reich teneva a sottolineare come il carattere
ripetitivo della sua musica fosse rivolto a mettere in luce un processo
graduale, nel quale l’ascoltatore era indotto a prendere coscienza di
elementi tradizionali della musica occidentale, come la modulazione o il
contrappunto.
Del tutto lontano dai problemi di Steve Reich, Igor Stravinskij scrisse
i Tre Pezzi per clarinetto solo in Svizzera nel 1919, dedicando il
lavoro al mecenate e clarinettista dilettante Werner Reinhart. Il primo
dev’essere suonato Sempre p e molto tranquillo, mentre l’ultimo reca
l’indicazione f d’un bout à l’autre. Il radicale contrasto tra i due
pannelli estremi è mediato dall’episodio centrale, che manifesta non
solo un’ampia tavolozza di colori, ma anche una sorta di mercuriale
instabilità d’umore. Stravinskij rinchiude in questa minuscola galleria
di aforismi mondi del tutto diversi. Difficile infatti non sentire nel
delicato modalismo del Primo, da suonare con il cupo e vellutato
clarinetto in la, un’eco delle impressionistiche Lyriques japonaises,
mentre il petulante pezzo finale, con le sue inflessioni popolaresche
guarda invece al mondo dell’Histoire du Soldat. Gli strumenti a
percussione dispongono di una tale gamma di soluzioni timbriche che un
musicista è quasi sollecitato a immaginare delle trascrizioni. La
collaborazione di un virtuoso come Carbonare ha suggerito a due
musicisti dell’ensemble Tetraktis, Gianni Maestrucci e Gianluca Saveri,
di reinventare con fantasia alcune pagine popolari come le Danze rumene
di Bartók e Il volo del Calabrone di Rimskij-Korsakov. A queste si
aggiunge anche un pezzo, Le Api di Antonino Pasculli, un tempo molto
gradito nelle sale da concerto. Pasculli è stato un celebre virtuoso
dell’Ottocento, tanto da meritare il titolo (piuttosto inflazionato) di
Paganini dell’oboe. Le sue composizioni erano soprattutto trascrizioni
virtuosistiche di pezzi noti dell’opera italiana. Al genere descrittivo
appartiene invece il suo lavoro più fortunato, Le Api, indicato come
“Studio caratteristico per oboe e pianoforte”. La musica intende imitare
la natura, come recita l’indicazione pianissimo simile al ronzio delle
api. Lo strumento solista, in questo caso il clarinetto, deve mantenere
fino alla fine un’eccezionale agilità nelle rapide quartine di
semibiscrome e allo stesso tempo una flessuosa leggerezza di suono,
sostenuta da un delicato intarsio melodico e armonico di percussioni
metallofone. Le Danze popolari rumene di Bartók sembrano votate invece
alla metamorfosi. Il primo a trascriverle infatti fu proprio l’autore,
che prese una serie di brevissime danze per pianoforte ispirate alla
musica contadina della Transilvania e le trasformò nel 1917 in un lavoro
per piccola orchestra. Le Danze rumene sono diventate in seguito molto
popolari anche nella versione per violino e pianoforte e nel corso del
tempo hanno assunto svariate fogge, prima di arrivare alla trascrizione
di Maestrucci. Il volo del Calabrone di Rimskij-Korsakov ha collezionato
un numero ancora più alto di versioni, compreso un Guinness dei primati
per l’esecuzione più veloce su una chitarra elettrica. In origine era
semplicemente un interludio orchestrale dell’opera La favola dello zar
Saltan. Il titolo deriva dal fatto che in quel punto il cigno magico
trasforma in calabrone il figlio dello Zar, che desidera conoscere il
destino del padre senza essere visto. La trascrizione serve a mettere in
mostra soprattutto il virtuosismo degli esecutori. Analogo discorso vale
anche per la Sinfonia dall’“Italiana in Algeri” di Rossini. Tenuto conto
che l’opera intera fu scritta in meno di un mese, la Sinfonia non è
soltanto un capolavoro di spirito e d’intelligenza, ma anche un piccolo
miracolo di abilità artigianale. Del recente lavoro F for Fake di
Riccardo Panfili, un autore emergente della scena musicale
contemporanea, abbiamo una descrizione di prima mano: «F for Fake:
l’ultima fatica cinematografica di Orson Welles. Un saggio in forma
filmica sulla potenza dell’arte e sulla magia del finto, sul luccichìo
abbagliante della falsificazione. Il pezzo tenta di mimare il
caleidoscopio di stili e tecniche cinematografiche messe in campo da
Wells».
Anche Giovanni Sollima ha lasciato una descrizione del suo Millennium
Bug, un brano articolato in cinque parti, dal quale il Tetraktis ha
tratto una suite presentando gli episodi III, II e I. Si tratta di «una
breve riflessione su un’ansia che divide equamente virtuale e reale,
tecnologia e spiritualità, un’antica ed ancestrale apprensione che
l’uomo prova nei confronti delle grandi transizioni». Il lavoro nasceva
in effetti in un periodo di diffusa e poco motivata apprensione per i
possibili effetti sul sistema informatico globale derivati dal passaggio
dal 31 dicembre 1999 all’1 gennaio 2000. Si temeva infatti che il
difetto (bug) nella programmazione del sistema avrebbe potuto provocare
catastrofi a catena. Per fortuna invece l’unica conseguenza del
Millennium Bug è stata il lavoro di Sollima, un classico per quartetto
di percussioni entrato nel repertorio di molti ensemble di percussioni
in tutto il mondo. La Suite Hellénique è uno dei lavori più noti del
sassofonista e compositore spagnolo Pedro Itturalde. Scritta in origine
per quartetto di sassofoni, la Suite è articolata in quattro parti, così
descritte dall’autore: «Il primo movimento rappresenta un’introduzione,
formata da motivi del folklore greco, e dopo s’incatenano uno dopo
l’altro movimenti di foggia differente (Funky, Vals, cadenze e pezzi
greci).
Tutto ciò è conforme all’intenzione di creare un linguaggio, di jazz
principalmente, nel quale si mescolano diversi stili e generi, il cui
criterio interpretativo tuttavia costituisce l’unità del lavoro». La
trascrizione di Carbonare sfrutta l’affinità strutturale tra la tecnica
del clarinetto e quella del sassofono. Il concerto si chiude con una
suite liberamente ispirata alle musiche della vasta regione asiatica
influenzata dal duduk, un antico strumento della tradizione armena. Il
duduk mescola caratteristiche di vari strumenti.
La doppia ancia infatti è tipica della famiglia dell’oboe, mentre la
forma cilindrica ricorda il clarinetto. Inoltre il duduk presenta
somiglianze con strumenti dell’Estremo Oriente, come il guanzi cinese e
l’hirichiki giapponese. Il suono infine è profondamente legato alla
cultura e alla lingua armena, di cui rappresenta una sorta di ancestrale
canto dell’anima. La musica per duduk quindi costituisce un antichissimo
crocevia di storie e di esperienze diversissime, che invitano gli
spettatori a pensare alla musica come un infinito e sempre nuovo viaggio
nello spazio e nel tempo. Note di Oreste Bossini dal programma di sala.
Tetraktis Percussioni
Fin dalla fondazione nel 1993, Tetraktis Percussioni si caratterizza per
innovazione, varietà di repertorio, curiosità e passione. I membri
dell’ensemble, dopo gli studi al Conservatorio di Perugia, hanno preso
parte a corsi e master class di G. Mortensen, D. Friedman, M. Rosen, R.
Wiener, R. van Sice, D. Searcy, M. Quinn, R. Schulkosky, M. Ben Omar.
L’ensemble ha al suo attivo concerti in Italia, Europa e Stati Uniti
anche in collaborazione con orchestre e direttori di primo piano. Su
invito dell’ensemble svedese Kroumata ha eseguito “Drumming” di Steve
Reich. L’impegno dell’ensemble nella musica contemporanea ha portato
nuovi impulsi nella scena musicale italiana con commissioni a Giovanni
Sollima, Carlo Boccadoro, Roberto Andreoni, Paolo Ugoletti, Thomas
Briccetti, Tonino Battista, Fernando Sulpizi, Carlo Galante, Carlo
Crivelli, Paolo Coggiola, Ciro Scarponi, Ramberto Ciammarughi, Maurizio
Curcio, Alessandro Annunziata, Fabrizio Nocci, Davide Zannoni, Gianluca
Cangemi. Le collaborazioni di Tetraktis Percussioni spaziano in tutti i
campi musicali. In ambito didattico ha realizzato programmi educativi di
grande successo. In campo discografico ha debuttato con “Millennium Bug”
al quale è seguito “Drama” realizzato con artisti ospiti provenienti da
ogni campo musicale.
Alessandro Carbonare, clarinetto e duduk
È per la prima volta ospite della nostra Società. Alessandro Carbonare
clarinetto Primo clarinetto dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di
S. Cecilia dal 2003, Alessandro Carbonare ha vissuto a Parigi, dove è
stato primo clarinetto solista dell’Orchestre National de France. Ha
collaborato inoltre con i Berliner Philharmoniker e con la New York
Philharmonic. Si è imposto nei più importanti concorsi internazionali.
Appassionato camerista, è da sempre membro del Quintetto Bibiena e
collabora regolarmente con rinomati artisti. Guest Professor alla
Juilliard School di New York, al Royal College of Music di Londra, al
Conservatorio Superiore di Parigi e alla School of Arts di Tokyo, ha
fatto parte delle giurie di importanti concorsi internazionali. Su
invito di Claudio Abbado è attualmente primo clarinetto dell’Orchestra
del Festival di Lucerna e dell’Orchestra Mozart. Collabora inoltre come
primo clarinetto con la New York Philharmonic Orchestra e la Chicago
Symphony Orchestra. Vincitore di due Diapason d’oro, ha registrato per
Deutsche Grammophon il Concerto KV 622 di Mozart e, per Decca, il CD
“The art of the Clarinet”. Sky-Classica gli ha dedicato un ritratto
nella serie “I Notevoli”. È docente di clarinetto all’Accademia Chigiana
di Siena. È stato ospite della nostra Società con il Quintetto Bibiena
nel 1995, 2006 e nel 2011 con il Quartetto di Cremona.