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Teatro Dal Verme
Via San Giovanni sul Muro 2 – Milano
Si ringrazia la
Fondazione Pomeriggi Musicali
per il sostegno delle attività di CONCERTODAUTUNNO
73ª STAGIONE SINFONICA
ORCHESTRA I POMERIGGI MUSICALI
Musica a colori
Direttore Artistico, M° Maurizio Salerno
Domenica 15 aprile 2018, ore 11.00
Sinfonie e suite
Ensemble di fiati dei
Pomeriggi Musicali
direttore
Paolo Belloli
PROGRAMMA e NOTE :
PROGRAMMA
Gioachino Rossini
La gazza ladra, ouverture
Pëtr Il’ič Čhajkovskij
Lo Schiaccianoci (suite, selezione)
Giuseppe Verdi
Giovanna d’Arco, ouverture
Gioachino Rossini
L’italiana in Algeri, ouverture
Georges Bizet
Carmen (suite, selezione)
Gaetano Donizetti
Don Pasquale, ouverture
Gioachino Rossini
Il barbiere di Siviglia, ouverture
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Seguono immagini della serata:
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CORNI
Alessandro Mauri *
CORNI
Debora Maffeis
CONTRABBASSO
Paolo Speziale
VIOLONCELLO
Alexander Zyumbrovsky
CLARINETTI
Giuseppe Cultraro
CLARINETTI
Marco Giani *
TUBA
Fabio Pagani
TROMBE
Sergio Casesi *
TROMBE
Luciano Marconcini
TROMBONE
Alessandro Castelli *
FLAUTI E OTTAVINO
Angela Citterio *
FLAUTI E OTTAVINO
Elisabetta La Licata
OBOI
Francesco Quaranta *
PERCUSSIONI
Giovanni Franco
OBOI
Domenico Lamacchia
FAGOTTI
Lorenzo Lumachi *
Sarah Ruiz *
CONTROFAGOTTO
Sabrina Pirola
Nella foto Mario Mainino con il direttore Paolo BELLOLI
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Note:
Organico
VIOLONCELLO
Alexander Zyumbrovsky
CONTRABBASSO
Paolo Speziale
FLAUTI E OTTAVINO
Angela Citterio *
Elisabetta La Licata
OBOI
Francesco Quaranta *
Domenico Lamacchia
CLARINETTI
Marco Giani *
Giuseppe Cultraro
FAGOTTI E CONTROFAGOTTO
Lorenzo Lumachi *
Sarah Ruiz *
Sabrina Pirola
CORNI
Alessandro Mauri *
Debora Maffeis
TROMBE
Sergio Casesi *
Luciano Marconcini
TROMBONE
Alessandro Castelli *
TUBA
Fabio Pagani
PERCUSSIONI
Giovanni Franco
' prima parte
ISPETTORE
Alberto Cara
Note dal programma di sala
“Ho composto l’ouverture de La gazza ladra il giorno
stesso della sua rappresentazione, nello “sgabuzzino” della Scala dove
il direttore mi aveva rinchiuso. Ero stato messo sotto sorveglianza da
quattro macchinisti che avevano l’ordine di recuperare le pagine del mio
manoscritto l’una appresso l’altra, e di gettarle dalla finestra ai
copisti che le aspettavano per fare il loro lavoro. I macchinisti
avevano anche l’ordine di buttarmi dalla stessa finestra se il
manoscritto non... avanzava”. Così scrive Rossini in una lettera (in
realtà di incerta autenticità), forse un’iperbole aneddotica che tanto
piace alla storia ma di certo non lontana dalla realtà. Il mondo
dell’opera, che oggi immaginiamo pensoso intorno alle grandi complessità
psicologiche, è stato in realtà per almeno un secolo il mondo della
velocità. Tempi di composizione stretti, guadagni e fiaschi nel tempo di
un lampo, allestimenti fatti di nottate per maestranze (e a volte
musicisti), tanto caffè e pasti poco masticati. In questo modo è nato
gran parte del canone del melodramma tra metà Settecento e quasi tutto
l’Ottocento, un repertorio di temi, trame, suoni e personaggi che
costituiscono senza dubbio uno dei pilastri della nostra identità
nazionale. Un lato affascinante di questo fenomeno, così grande da
essere comprensibile solo parzialmente, è proprio nel fatto che melodie
e parole sono entrate nella nostra coscienza con una facilità
sbalorditiva, e vi permangono quasi a costituire un repertorio
espressivo sempre a disposizione come rifugio mentale.
E l’editoria musicale (solo quella, visto che non esisteva ancora la
riproduzione sonora) ne approfittò subito, nasando l’affare. Le opere
andavano in scena e nei negozi subito abbondavano elaborazioni,
trascrizioni, fantasie su temi, parafrasi, un mondo musicale di edizioni
che permettevano la riproduzione di quei temi, quelle melodie, quei
momenti drammatici che costituivano il nucleo di ogni opera. Si tratta
di un fenomeno ampio, rivolto ad una borghesia che cerca di
aristocraticizzarsi almeno attraverso la frequentazione dei teatri e la
coltivazione di uno strumento musicale, ma rivolto anche ai virtuosi ed
agli organici più snelli di un’orchestra di teatro, portando così
l’opera al di fuori delle case d’opera. In questo senso il concerto per
soli fiati che andiamo oggi ad ascoltare è storicamente giustificato
tanto quanto una messa in scena delle musiche che ascolteremo. Ed il
nostro viaggio comincia proprio da La gazza ladra e dalla sua ouverture
tanto rapidamente assemblata. Siamo nel 1817, Rossini ottiene un enorme
successo per un’opera, questa, alla quale si è applicato con singolare
impegno: se l’ouverture è stata composta in un lampo, per l’intera opera
egli ha impiegato ben tre mesi, un lasso di tempo molto poco rossiniano.
Un rullo di tamburo scuote palchi e platea densi di aspettative ma non è
un espediente di facile effetto. Rossini compone un’ouverture che gioca
sui temi che informeranno l’opera (diversamente da altre occasioni, in
cui effettuerà gratuiti auto-imprestiti), e proprio il tamburo andrà a
scandire i cambi di azione di una trama che ancora riesce a divertire e
a far pensare, proprio come si addice ad un’opera “semiseria”.
Qualcosa di simile avviene anche in Russia. I russi amano la nostra
opera sin dalle produzioni del primo Settecento, la Corte spende a
profusione per avere i nostri direttori ed i nostri titoli, fino ad
arrivare ad un poco noto ma focale Riccardo Drigo, padovano, che dirige
l’orchestra del Teatro Mariinskij in quasi tutte le sue messe in scena.
Nel 1892 una di queste è Lo Schiaccianoci, che abita stabilmente nella
nostra memoria grazie a numerosi omaggi hollywoodiani (vedi l’indimenticato
Fantasia di Walt Disney) ma che invece è una delle composizioni più
raffinate e distillate di Čajkovskij. È il suo balletto più corto ma
quello che ha scritto a più stretto contatto con un coreografo (Marius
Petipa), e soprattutto è musica meravigliosa, nata da una commissione
dei Teatri Imperiali Russi. Anche dello Schiaccianoci esiste una Suite
di brani, adatta all’orchestra sinfonica ma facilmente esportabile su
altre formazioni.
Stavolta, però, non si tratta di un’iniziativa editoriale successiva ma
di un’abile operazione di marketing ante litteram: la Suite inizia a
circolare prima della rappresentazione del balletto, creando
un’aspettativa molto più accesa di qualunque possibilità pubblicitaria,
grazie anche ad un tessuto musicale accattivante ma semplice, pensato in
ogni dettaglio per imprimersi con facilità nella memoria, ancora oggi.
Torniamo alla Scala e siamo nel 1845. Il nostro Teatro commissiona ad un
Giuseppe Verdi oberato di lavoro (siamo nei famosi “anni di galera”)
ancora un’opera. Verdi accetta ma inizia a litigare con Merelli,
l’impresario che decideva cosa mettere in scena in Scala, e il
contendere è come sempre su questioni economiche. Per fortuna Verdi è
uomo di princìpi e onora il suo impegno regalandoci una splendida
Giovanna d’Arco, ma non accetterà più commissioni da Milano fino al
famoso Otello del 1887, ma quella fu tutta un’altra storia. Verdi
finisce di orchestrare a prove già iniziate, il successo arriva ma non è
esaltante e la critica ha da subito difficoltà a definire questo lavoro.
Il lavoro del compositore è ineccepibile ma qualcosa non funziona. Forse
Verdi è già troppo avanti e sempre meno incline ai compromessi in ordine
ad un successo di cassetta. Di fatto l’opera viaggia, torna in
cartellone a Milano ma solo fino al 1865. Dovremo aspettare il S.
Ambrogio del 2015 per rivederla in Scala, grazie al recupero audace di
Riccardo Chailly. In barba ad ogni considerazione critica, però, resta
da riflettere sul fatto che il famoso biografo verdiano Mila considerò
l’ouverture come una delle migliori composizioni orchestrali di Verdi
(non inferiore ai Vespri Siciliani, ad esempio), e che il compositore
stesso, in una lettera al librettista Piave, disse di ritenere la
Giovanna d’Arco “la migliore delle sue opere”. Però non sapeva cosa
avrebbe composto dopo il 1845...
“La perfezione del genere buffo”, così Stendhal definisce L’italiana in
Algeri, due attidi Rossini composti nel 1813. Lasciamo la Scala e
andiamo a Venezia, il committente è il Teatro S. Benedetto, il teatro
lagunare più importante prima che La Fenice venisse costruita nel 1792
(i due teatri sono coesistiti per parecchio tempo ma poi il meno famoso
è diventato un cinema, poi un multisala e adesso ospita perfino un
supermercato...). Il successo di quest’opera è immediato e persistente e
la sua ouverture è irresistibile. È con questo repertorio che Rossini ci
impone di considerare il suo genio: la musica è freschissima e non
conosce momenti di stanchezza, l’ouverture entra in medias res senza
troppi preamboli, i suoni sono turchi come da copione e la trama è piena
di colpi di scena. Non è difficile capire che anche un Richard Strauss
ne possa essere rimasto abbagliato!
Con la Carmen di Bizet torniamo sui palcoscenici mondiali e ci troviamo
a che fare con un’opera che ha davvero fatto storia. Parigi, Teatro
dell’Opéra-Comique, nel 1875 va in scena qualcosa di singolare, di
inaspettato. Siamo in un teatro che vuole trame poco impegnative, un
pubblico che si vuole gustare una serata rilassante, magari anche
divertente e piccantella, e arriva Carmen. La trama soddisfa i
requisiti, sì, ma c’è molto, molto di più, e non sempre questo va bene
(purtroppo). Bizet è un artista di successo e la prima dell’opera cade
proprio nel giorno in cui gli conferiscono la Légion d’Honneur, il 3
marzo, ma Carmen fa scarso successo. A livello superficiale la trama può
anche andare ma si avverte sempre la presenza di piani di lettura molto
più profondi e questo crea del disagio, la musica è bella ma
l’orchestrazione è davvero troppo raffinata (anche pesantuccia e
difficile, a detta della buca d’orchestra), e poi la protagonista non è
nemmeno una soprano ma una mezzosoprano quasi contralto. Insomma, c’è
qualche problema. Bizet muore tre mesi dopo e non lo sa, ma oggi Carmen
è la seconda o terza opera più rappresentata ogni anno nelle statistiche
di Operabase (il duello costante è con Il Flauto Magico, guarda un po’
due opere che contengono parti recitate). In ogni caso la posizione di
testa resta solidamente a La traviata, con incolmabile distacco.
Restiamo a Parigi e nel 1843 vediamo andare in scena il Don Pasquale,
opera buffa in tre atti. Anche in questo caso il lavoro non può andare
in scena sui palcoscenici deputati ai drammi e agli spiriti tragici e
Donizetti scrive quindi per la Salle Ventadour del Théâtre-Italien, un
teatro le cui origini si perdono in quella querelle des bouffons dalla
quale non siamo ancora veramente del tutto usciti. Il successo è
immediato e dirompente e questo grazie alla musica rapida ed efficace di
Donizetti ma anche grazie ad una trama che dipinge personaggi del tutto
assimilabili alla fortunata Commedia dell’Arte. Pasquale è Pantalone,
Ernesto è Pierrot, Malatesta è l’astuto Scapino e Norina è una Colombina
della quale non ci si può che innamorare. L’opera gira subito l’Europa e
resta lungamente in repertorio, a dispetto di quegli undici giorni in
cui si narra che sia stata integralmente composta.
Conclude il nostro viaggio l’ouverture de Il barbiere di Siviglia,
ineludibile presenza per ogni concerto lirico-sinfonico che si rispetti.
Stavolta siamo a Roma, al Teatro Argentina, nel 1816, e in quei giorni
Rossini ha veramente più fretta che mai. Se è vero che la sua vena
creativa è immediata e sempre fresca, per quest’opera non c’è neanche il
tempo di scrivere un preludio. L’unica soluzione è un’auto-trasfusione,
o meglio un meno cruento auto-imprestito. A disposizione c’è già un
preludio, e in fondo non interessa a nessuno che sia o meno collegato
all’opera che sta per andare in scena. In fondo la funzione
dell’ouverture è quella di richiamare l’attenzione di un pubblico un po’
rumoroso, di far sì che la gente lasci i foyers per andare nei palchi e
che scenda quel minimo di silenzio necessario almeno per capire le
parole. Bene, l’unica possibilità è riprendere la Sinfonia scritta tre
anni prima per Aureliano in Palmira, tanto era andata in scena a Milano
e comunque non girava un granché. E poi non era la prima volta che
Rossini se ne serviva. Senza andare troppo lontani nel tempo, solo
quattro mesi prima gli era servita per aprire l’Elisabetta regina
d’Inghilterra, stavolta a Napoli. Evidentemente a Rossini quest’ouverture
piaceva parecchio. Di certo aveva buon gusto, no?
Andrea Cavuoto
Le foto sono scattate con:
Panasonic LUMIX FZ1000 20 Megapixel, Zoom 42X, 1600-3200 ISO, LCD ad Angolazione Variabile e rigorosamente non hanno subito nessuna post elaborazione.
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